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Lunedì 6 febbraio 2012 – Vangelo di Matteo cap. 6 – 7,12 – CdB – Comunità Cristiana di Base Viottoli

Lunedì 6 febbraio 2012 – Vangelo di Matteo cap. 6 – 7,12

Il cap. 6 inizia sottolineando e richiamando i tre grandi pilastri su cui il profeta Gesù, che da poco aveva iniziato la sua vita pubblica, costruisce la sua predicazione. Questi sono: la giustizia, le buone opere e la preghiera. Prima c’è il richiamo al culto (preghiera), poi all’elemosina come buona opera di misericordia, infine l’indicazione del digiuno come pratica che può predisporre adeguatamente alle due pratiche della preghiera e della misericordia. Questo passaggio del vangelo di Matteo è la sezione centrale del discorso della montagna e al centro del centro troviamo la preghiera del Padre nostro (vv. 9-15).

Chi sono i simulatori, gli ipocriti, che Gesù addita come esempio negativo? I simulatori sono coloro che fanno di tutto per essere guardati dagli uomini. Elemosina, preghiera e digiuno stabiliscono, viceversa, una comunione con il Dio invisibile che Gesù chiama Padre.

 

Il Padre nostro

La versione di Matteo è più ampia di quella di Luca (Luca 11,2-4). Il Padre nostro di Matteo era la preghiera di Gesù in uso nell’ambiento giudeo-cristiano, mentre quello di Luca era in uso nell’ambiente etnico-cristiano. Ogni ebreo devoto pregava Dio tre volte al giorno: alla sera, al mattino e a mezzogiorno; anche il Padre nostro è un condensato estremamente denso della preghiera ebraica di tutti i giorni.

Le prime tre invocazioni non sono suppliche, ma benedizioni. La santificazione del nome ha un’importanza molto grande nella vita religiosa ebraica: essa si attua attraverso la quotidiana sottomissione alla Torah. Venga il Tuo Regno: la seconda invocazione è una nozione parallela alla prima e va a sottolineare l’affermazione e la necessità di rendere visibile la signoria di Dio in questo mondo e, quindi, l’importanza di far venire il suo Regno nelle nostre vite e nei nostri giorni. Tutto l’evangelo testimonia la centralità di questa preghiera e di questo annuncio da parte di Gesù. Sia fatta la Tua volontà: è la preghiera di Gesù nel giardino del Getsemani. Egli dice: “non come voglio io, ma come vuoi Tu”; questo ci ricorda che non sta a noi compiere la volontà di Dio, ma a noi tocca pregare affinché Dio compia la sua volontà, ma anche, soprattutto, affinché noi possiamo fare la volontà di Dio.

Dacci oggi il nostro pane. E’ possibile che Gesù in aramaico abbia detto proprio così: “Accordaci in questo giorno il nostro pane del giorno”; in pratica voleva sottolineare che il pane del giorno deve bastarti, come hai imparato nella preghiera. Nella versione siriaca è scritto “il pane di cui abbiamo bisogno”.

Rimetti a noi i nostri debiti. Il peccato è considerato come un debito verso Dio e verso il prossimo: in aramaico perdonare significa dunque rimettere un debito. Ma la condizione perchè la nostra richiesta di perdono sia efficace è che anche noi “rimettiamo” o “abbiamo rimesso” i debiti altrui, come si spiega chiaramente nei vv. 14 e 15, che sono un commento a questa invocazione. D’altro canto la nostra disposizione a perdonare è proporzionale alla gratitudine con la quale ci sentiamo noi stessi perdonati da Dio.

Non farci entrare in tentazione equivale a “fa’ che non entriamo”: non vuol dire che Dio ci induce in tentazione, ma che è in suo potere far sì che non vi siamo indotti. Che ci sia risparmiata la tentazione, che siamo preservati dalla caduta, dobbiamo soprattutto chiederlo a Dio come una grazia, anziché confidare solo sulle nostre forze. La tentazione, infatti, non è solo una prova per la nostra fede, ma un pericolo, una trappola infernale, dalla quale Dio può sempre salvarci, ma in cui rischiamo anche di perderci. Una preghiera ebraica recita: “possa in noi regnare l’impulso buono e non regnare l’impulso cattivo”.

Ma liberaci dal maligno è una precisazione della petizione precedente, che manca nella versione di Luca. Qui Matteo fa prevalere il senso personale: non semplicemente il “male”, ma chi lo trama ai nostri danni, cioè il “maligno”.

 

Il digiuno (vv. 16-18)

Ciò che il Signore rimprovera ai simulatori è il modo in cui praticano il digiuno, ovvero lo spirito con cui lo si vive. E’ una denuncia della falsa pietà che si può mascherare. Gesù si limita a chiederci che, se digiuniamo, lo facciamo con gioia. Infine Matteo ci parla della ricompensa, che dobbiamo aspettarci dal Padre che vede nel segreto del nostro vivere; questa ricompensa è unica: se la riceviamo dagli uomini non aspettiamoci più di riceverla da Dio.

 

La fiducia nel Padre

L’ultima parte del capitolo 6, dal v. 19, è collegata ai primi 12 vv. del capitolo successivo. Abbiamo qui la rivelazione della paternità di Dio e l’invito ad abbandonarci alla sua paterna provvidenza. Troviamo in questo brano una serie di detti in ordine più o meno sparso, che gravitano tutti intorno a un insegnamento centrale: non preoccupatevi del cibo, del vestito, del domani, perchè è Dio che ci provvede ogni giorno di tutte le cose di cui abbiamo bisogno per vivere. Ecco perchè non ci deve mai mancare la fiducia in Lui, l’Abba, il nostro Padre.

Possiamo evidenziare sette detti:

  1. Il vero e il falso tesoro (vv. 19-21). L’immagine è quella di un ammasso inutile di beni deperibili che cerchiamo di accumulare, contrapposto a tutt’altro tipo di beni. Ma non è questo che il brano evidenzia, bensì che il nostro cuore, la nostra attenzione, la nostra sollecitudine sono rivolte a quanto abbiamo di più prezioso. Perciò tutto dipende da ciò che noi stimiamo come il nostro “tesoro”.
  2. L’occhio semplice e quello avido (vv. 22-23). L’occhio è l’organo che percepisce e riflette la luce in tutto il corpo. L’occhio “semplice” è quello che non si lascia sedurre dalla cupidigia o dalla gelosia; al contrario, anche senza arrivare al “malocchio”, l’occhio cattivo è sempre o avaro dei suoi beni o invidioso di quelli altrui. Naturalmente anche l’occhio luminoso può diventare tenebroso… In questo è simile al detto sul sale che può diventare insipido.
  3. Dio e mammona (v. 24). Per un domestico “servire” vuol anche dire un po’ appartenere al suo padrone: coinvolge la sua persona, non solo il suo lavoro; mentre “odiare” e “amare” possono essere usati in senso comparativo. In questo contesto Matteo propone una personificazione del termine “mammona”: soltanto il vangelo smaschera mammona come idolo, oggetto di una fiducia mal riposta e alienante. C’è un nesso profondo tra la “fiducia” dell’uomo e la sua “ricchezza”. Amare Dio con tutta la nostra forza può concretamente condurci a rinunciare ai nostri beni: una scelta drastica, ma necessaria.
  4. Non preoccuparsi per la propria vita (vv. 25-34). E’ servire a mammona che causa preoccupazioni e, viceversa, le preoccupazioni inducono all’avarizia. “Non preoccupatevi” ritorna in questo testo per ben sei volte: essenziale è dunque non nutrire sollecitudini contrastanti, che dividono il cuore e gli impediscono di essere “semplice”. L’illusione della ricchezza soffoca la parola del Regno e, quindi, anche quella giusta preoccupazione che Paolo chiama “la sollecitudine degli uni per gli altri” (1Cor 12,25). Dio ci ha dato le cose più grandi, l’anima e il corpo, non ci darà anche le più piccole, il cibo e il vestito? Gli uccelli sono un esempio non di pigrizia, ma di libertà dall’ansietà. Così tutta l’attività umana risulta ridimensionata, poiché non è da essa che viene la vita. Il vangelo sostiene, invece, che queste nostre preoccupazioni dipendono unicamente dalla piccolezza della nostra fede. Che cosa vuol dire allora “aver fede” per Matteo? Vuol dire cercare prima di tutto il Regno di Dio; la sua giustizia, che è la giustizia che provvede ugualmente a buoni e malvagi, a giusti e ingiusti, è il modo in cui il suo Regno si inscrive quotidianamente nelle nostre vite.
  5. Non giudicare (vv. 7,1-5). Apparentemente non vi è alcun nesso fra il non giudicare e la fiducia nella provvidenza. Matteo ci dice che con lo stesso metro, con cui noi misuriamo il prossimo, noi stessi saremo a nostra volta misurati, ovviamente da Dio. Non può dunque un uomo chiedere qualcosa a Dio se egli stesso non è generoso nel donare agli altri. Per questo è necessario avere l’occhio semplice, non invidioso del fratello, capace di sopportare le sue imperfezioni, che sono una “pagliuzza” al confronto con le nostre “travi”.
  6. Disciplina dell’arcano (v. 7,6). Dopo averci messo in guardia dal giudicare il prossimo, qui Matteo ci parla di “cani” e di “porci”, due modi spregiativi con cui gli ebrei chiamavano i pagani. Chi ha la coscienza di aver ricevuto cose grandi e preziose non può svenderle, non può banalizzarle. Forse qui Matteo ci vuol far riflettere e mettere in guardia da un facile proselitismo.
  7. Chiedere, cercare, bussare (vv. 7-11). Qui Matteo sottolinea la cosiddetta “sapienza del mendicante” e ci propone anche un esempio, quello del rapporto padre-figlio. E’ Dio che dona tutto e lo dimostra proprio donando anche a coloro che non gli chiedono nulla. Egli, come un vero padre, desidera che suo figlio gli domandi “cose buone” e, come a un figlio che sa piacere a suo padre, gli accorda tutto ciò che egli desidera.

Nel v. conclusivo (7,12) ci viene donata la regola d’oro: non fare a nessuno ciò che non piace a te. Era una regola comune nel giudaismo, quasi un’esegesi del comandamento di amare il prossimo come se stessi: ciò che non vuoi che sia fatto a te, tu non farlo ad altri.

Luciano Fantino

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