V Domenica di Pasqua

Restare tralci vivi è una libera scelta

«Io sono la vera vite e il Padre mio è il vignaiolo. Ogni tralcio che in me non porta frutto, lo toglie e ogni tralcio che porta frutto, lo pota perché porti più frutto. Voi siete già mondi, per la parola che vi ho annunziato. Rimanete in me e io in voi. Come il tralcio non può far frutto da se stesso se non rimane nella vite, così anche voi se non rimanete in me. Io sono la vite, voi i tralci. Chi rimane in me e io in lui, fa molto frutto, perché senza di me non potete far nulla. Chi non rimane in me viene gettato via come il tralcio e si secca, e poi lo raccolgono e lo gettano nel fuoco e lo bruciano. Se rimanete in me e le mie parole rimangono in voi, chiedete quel che volete e vi sarà dato. In questo è glorificato il Padre mio: che portiate molto frutto e diventiate miei discepoli. (Giovanni 15, 1-8).
Gesù è “nel Padre” (Gv 14,10) e in noi (15,4). Gesù è l’unica via al Padre (14,6) e noi siamo “fruttiferi/e” solo se restiamo in lui (15,4), perché “senza di me non potete far nulla” (15,5).

La rete d’amore

Quel gruppetto di uomini e donne a cui Gesù si rivolge non è una chiesa, una comunità religiosa, l’embrione del cristianesimo…è un gruppo di uomini e donne, icona dell’umanità. Tutti gli uomini e tutte le donne del mondo, della storia dell’umanità, passata, presente e futura, sono tralci della stessa vite. Gesù è il “nome” che Giovanni dà alla rete d’amore che ci lega e ci collega tra uomini e donne di tutto il mondo e di tutti i tempi.

Nel linguaggio evangelico il “mondo” è dove non c’è amore; ma dove c’è amore c’è Dio: l’amore è Dio. L’amore è la “legge di Dio” posta nel cuore di ogni uomo e di ogni donna che nascono alla vita: anche di chi non crede e non frequenta chiese e culti.

Certo, per Giovanni la vite, l’albero da cui i tralci ricevono linfa, è Gesù; per altre fedi è direttamente il Grande Spirito o la Grande Madre Terra… Per milioni di anni non c’è stato Gesù, ma c’è sempre stata la vite dell’umanità, della creazione, di tutto il creato. Senza gerarchie, non solo dentro le chiese, ma neppure fra le chiese, le religioni, le culture…

Le gerarchie sono cominciate con il patriarcato, con la competizione instaurata dal monoteismo, da chi ha cominciato a credersi l’unico vero, l’eletto… nel proprio immaginario e desiderio di dominio. Perché l’attenzione è stata spostata sul vignaiolo, sull’agricoltore.

Mentre, nell’immagine usata da Gesù, l’agricoltore è distinto dalla vite: la pota, la cura, fa in modo che viva e produca frutto. Giovanni ci invita a fissare la nostra attenzione proprio sulla vite: noi siamo tralci uniti tra noi e alla vite, al punto (questo lo penso io, non Giovanni) che non si distingue neppure dove la vite diventa tralci, perché Gesù è uno di noi, è vite insieme a noi.

Qual è il messaggio che ricavo? Che quel che conta è che circoli la vita attraverso il viluppo di tralci, fino all’ultimo ricciolino che nasce e si aggrappa al tralcio più esile. Perché la vite universale del creato viva, occorre farvi circolare tutta la vita che c’è: la vita e la parola di Gesù così come la vita e la parola e la capacità d’amore di ciascun uomo e di ciascuna donna.

Rimanere attaccati/e è una libera scelta

Il v. 2 “ogni tralcio che in me non porta frutto egli lo recide…” mi sembra in contraddizione con il v. 5 “chi rimane in me, e io in lui, porta molto frutto…”. Non è possibile che avvenga ciò che è descritto al v. 2: i tralci che sono in lui, attaccati a lui-vite, non possono non portare frutto.

La contraddizione si risolve se riflettiamo che stare attaccati/e alla vite non è, come per gli alberi, una necessità di natura, bensì, per noi uomini e donne, una libera scelta: “rimanere” attaccati/e indica proprio decisione consapevole, quotidianamente rinnovata. L’amore non ci trascina con sé contro la nostra volontà. Anche perché l’amore non esiste: esistono uomini e donne che amano, che scelgono di far scorrere la linfa della vita attraverso il proprio corpo e le proprie mani.

Possiamo essere tralci passivi o tralci attivi, tralci secchi o tralci vivi… non basta essere tralci: bisogna esserne consapevoli, scegliere ogni giorno di “restare attaccati/e”, parti vive e vitali della rete universale dell’amore.

Il messaggio centrale, il nucleo della metafora usata da Giovanni, mi sembra essere: vive e porta frutto chi resta collegato/a alla rete dell’amore, quella che permette il passaggio della linfa vitale dalle radici ai rami attraverso il tronco, fino ai più piccoli rametti, ai pampini e alle punte delle foglie più lontane.

Giovanni chiama “Gesù” questa rete dell’amore, che porta vita, amore e gioia perfetta da Dio creatore a ogni uomo e a ogni donna che sceglie di restare in rete. Io credo (e mi sembra essere convinzione condivisa in comunità) che la rete dell’amore significhi vita e gioia anche per chi non la riconosce consapevolmente come “Gesù”, per chi la chiama semplicemente “rete dell’amore”. Quel che conta davvero è amare, essere accoglienti, rispettosi/e delle differenze, qualunque nome diamo a queste pratiche. L’obiettivo è “portar frutto”, il frutto dell’amore: tutto dipende da questo.

Tutti i tralci hanno bisogno di potatura

Decisiva è la potatura, che consiste nell’eliminare i tralci secchi e mondare quelli vivi. Ecco perché tutti i tralci hanno bisogno di potatura. Io direi, facendo tesoro delle sagge riflessioni di David Bourgoz (“non ci sono uomini violenti, ma uomini che compiono atti di violenza”), che nessun tralcio è irrimediabilmente secco: tutti e tutte abbiamo bisogno di essere mondati/e, per imparare a stare in rete con consapevolezza.

In questo senso la potatura, come qualcuno ha suggerito in comunità, è sempre una “costrizione”: portare frutto non è una cosa spontanea ed automatica. Ci vuole educazione, formazione ed autoformazione: nella vita s’impara ad amare, a stare nelle relazioni con cura, rispetto, reciprocità. Così la gioia a poco a poco cresce e diventa “piena”, come garantisce Gesù al v. 11.

Un esempio mi viene spontaneo: negli anni giovani del matrimonio c’è spesso voglia di trasgressione. Perché? Perché la relazione non è stata ancora capita, approfondita, imparata… non ci prende ancora totalmente… è un cantiere appena aperto. Se siamo capaci di resistere, di non interromperla, di restare reciprocamente attaccati/e, parlando ed aprendoci a vicenda, la relazione prosegue, si abbarbica ai nostri corpi, alle nostre vite, e diventa “super”…

La potatura reciproca

Dio, dice Giovanni per bocca di Gesù, mondandoci, potandoci, ci dà sempre un’altra possibilità, perché ha fiducia in noi. E, allora, ci siamo chiesti/e nel gruppo: cos’è che ci dà fiducia, oggi? Tutti e tutte hanno avuto qualcosa da dire: soprattutto che la fiducia nasce e si alimenta con la potatura reciproca. Non c’è un Dio che interviene sulla rete dei tralci, come fa il contadino con una materialissima vite vegetale.

La “parola di Dio” è nel nostro cuore, è il nostro bisogno e desiderio di vivere con amore, di amare e di essere amati/e: la fiducia nasce nella coppia, nel piccolo gruppo, nella comunità, in ogni “collettivo” in cui si impara ad ascoltare e a parlare senza giudicare, a dare e a ricevere con rispetto, senza competizione. Il gruppo sostiene, aiuta la singola persona: questo vale per ogni membro della comunità; in questo senso è reciprocità.

Tanto la fiducia tra Dio e noi quanto quella tra di noi nascono e crescono dall’ascolto reciproco; e, perché questo possa avvenire, è chiaro che non ci deve essere giudizio tra noi: non voglio essere giudicato né voglio giudicare.

Sembrerebbe che il “giudizio di Dio” possa essere la forma della potatura. Io credo, piuttosto, che finché nominiamo Dio parliamo della Sua parola dentro di noi; mentre la potatura è pratica di relazione tra di noi, consapevole e coerente con quella parola, con la “legge dell’amore”. Per essere efficace non sono indifferenti le modalità con cui pratichiamo la potatura reciproca: il giudizio interrompe le relazioni, la fiducia fonda e motiva la responsabilità. Impariamo dunque ad affidarci a vicenda e a non perderci per le delusioni.

Il “tralcio fruttifero” di Giovanni è come il “sale buono” di Lc 14,34-45: sono i discepoli e le discepole consapevoli e coerenti che, come fa il sale, aiutano il creato a conservarsi sano, a vivere nella luce e nell’amore, a liberarsi dai germi patogeni dell’egoismo e del desiderio di ricchezze e di dominio. Per far questo il sale deve sciogliersi nella massa del mondo: agisce dal di dentro, dal basso.

Chi, invece, se ne sta in disparte, a dettar legge e a giudicare, finisce per diventare come il sale insipido, che non serve più a nulla e viene buttato via. Come i tralci secchi, che finiscono nel fuoco.

Beppe Pavan

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