14^ Domenica del T.O.

Profeti in casa nostra

Partito quindi di là, andò nella sua patria e i discepoli lo seguirono. Venuto il sabato, incominciò a insegnare nella sinagoga. E molti ascoltandolo rimanevano stupiti e dicevano: «Donde gli vengono queste cose? E che sapienza è mai questa che gli è stata data? E questi prodigi compiuti dalle sue mani? Non è costui il carpentiere, il figlio di Maria, il fratello di Giacomo, di Ioses, di Giuda e di Simone? E le sue sorelle non stanno qui da noi?». E si scandalizzavano di lui. Ma Gesù disse loro: «Un profeta non è disprezzato che nella sua patria, tra i suoi parenti e in casa sua». E non vi potè operare nessun prodigio, ma solo impose le mani a pochi ammalati e li guarì. Si meravigliava della loro incredulità. Gesù andava attorno per i villaggi, insegnando (Marco 6, 1-6).

Gesù «non poté operare nessun prodigio» tra questa gente (v. 5). È il primo caso di sconforto e d’impotenza manifestato nel Vangelo di Marco, tanto da spingere il Nazareno ad affermare: «Un profeta non è disprezzato che nella sua patria, tra i suoi parenti e in casa sua» (v. 4).

Un punta negativa di incredulità conclude questa sezione di Marco. Come fa notare la professoressa Clementina Mazzucco, «Anche questi concittadini fanno parte del gruppo di coloro che guardano ma non sanno vedere, ascoltano ma non sanno capire: un pericolo, quindi, che non tocca soltanto chi è sempre stato lontano dal vero Dio, come i Geraseni, ma anche, e forse soprattutto, coloro che invece hanno addirittura famigliarità con Gesù, che credono di conoscerlo bene. Costoro … non riescono ad ammettere che manifestazioni divine e messianiche possano verificarsi in una realtà tanto quotidiana e modesta quale è quella del Gesù che svolge l’umile lavoro dell’artigiano, che vive in una famiglia normale una vita normale: come può il divino conciliarsi con un umano così banale? Come può un seme così piccolo produrre una pianta tanto grande? È il mistero del Regno che sfugge ai più» (C. Mazzucco, Lettura del Vangelo di Marco, Zamorani editore, Torino 1999, p. 78).

Nella sinagoga si scandalizzavano di lui: «Donde gli vengono queste cose? E che sapienza è mai questa che gli è stata data? E questi prodigi compiuti dalle sue mani? Non è costui il carpentiere, il figlio di Maria, il fratello di Giacomo, di Ioses, di Giuda e di Simone? E le sue sorelle non stanno qui da noi?» (vv. 2-3).

Questa tentazione di non accogliere la parola di chi ci è vicino, le provocazioni e i pensieri di chi riteniamo troppo umile, limitato e prossimo, a cui siamo abituati è anche e sempre la nostra tentazione. Con questo non intendo spostare il discorso sull’aspetto «morale» della questione, sulle ricadute personali e relazionali che questo comporta, ma su un movimento più vasto, su una capacità di ricezione delle cose e delle parole (davar) che sgorgano come fiumi in piena dalla bocca dell’altro, soprattutto da chi meno ci aspettiamo.

Cerchiamo sempre l’oratore più simpatico, il relatore più capace e affascinante, il professore più famoso. Ci sentiamo rassicurati dalla presenza di questi «sapienti», di questi esperti – loro sì hanno le credenziali, loro sì hanno studiato e i certificati, i diplomi e le «carte» che hanno appesi alle pareti lo testimoniano. Spesso ci si sente impotenti di fronte alla Parola e alle parole e non si osa dire la propria parola, la propria interpretazione.

Questo ha a che fare con il coraggio, con la «parresia», la libertà della parola. La parola è di tutti, dobbiamo ridarle libertà. Ciò non significa che dobbiamo dar retta a tutte le parole, a chi parla a sproposito o a chi mente sapendo di mentire, ma che dobbiamo avere il coraggio di ascoltare e di dare valore anche alle parole di chi consideriamo troppo inesperto per dire la sua, di chi non ha gli attestati per poter parlare con sapienza e intelligenza.

La parola è parola di vita e la sapienza viene d’alto, non dalle università, dalle scuole, dalle cattedre di teologia, dai giornali e dagli esperti. La sapienza viene dalla vita delle persone, dall’esperienza dei poveri, dalla sofferenza di chi non ha voce. Chi non ha voce, non ce l’ha perché qualcuno gli ha sottratto la possibilità di gridare, di parlare, di dire la sua e di essere ascoltato, seriamente e con rispetto, con considerazione. Liberiamoci allora dagli «esperti di troppo» – come li ha definiti il simpatico Ivan Illich – riprendiamoci la libertà di dire le parole e di dire sulla Parola. Non dobbiamo avere timore di essere derisi, cacciati, presi per matti.

Dall’altra parte, facciamo attenzione a non andare in cerca di «profeti», esperti che possano soddisfare e dare risposta alle nostre domande. Prendiamo su di noi il coraggio della profezia, della parola. Il tempo dei profeti è finito, è iniziato il tempo della profezia. Diamo retta agli umili, ai piccoli, ai noiosi. Parliamo tra noi spinti dalla caritas, dalla simpatia e dall’amicizia. Fuggiamo dai congelatori della parola, dai ripetitori di parole morte e mortifere.

E, se ci sentiamo inesperti, prendiamo in mano i libri, studiamo e meditiamo liberamente – senza nessuno che ci dica cosa imparare e come dobbiamo farlo. Non perpetuiamo le condizioni che hanno fatto respingere Gesù, la sua sapienza; che gli hanno fatto dire: «Un profeta non è disprezzato che nella sua patria, tra i suoi parenti e in casa sua» (v. 4).

«I figli spirituali di coloro che non hanno accolto Gesù diranno oggi, dinnanzi alla testimonianza evangelica dei poveri del nostro paese, ma “questo non è un contadino che a malapena sa parlare lo spagnolo? Cosa possono dirci costoro che passano la vita protestando, senza lavorare?”. Li conosciamo, pertanto non possiamo attenderci nulla da costoro» (G.Gutierrez, Condividere la Parola, Queriniana, Brescia 1996, p. 232).

Perciò non dobbiamo passare dalla parte di chi toglie la parola, ma creare le condizioni affinché tutti possano essere profeti. Gesù inizialmente aveva annunciato il regno a tutti, passò poi ad annunciarlo a pochi e, infine, nessuno si dimostrò capace di ascoltare il suo annunzio, la buona notizia del regno. Restò solo, lo lasciarono solo.

Accettare profeti in patria, significa essere coinvolti personalmente, e non per sentito dire. Significa trovarsi di fronte alla provocazione, all’autenticità delle cose, alla denuncia nel nostro quotidiano. Non è facile, perciò, lasciare che un profeta parli nella sua stessa patria, nella sua casa, nella sua famiglia: il messaggio da lui annunciato sarebbe troppo duro, troppo vero, perché dentro alle cose.

È un discorso che tocca lo spazio del vivere, del quotidiano. Le dimensioni autentiche della nostra vita – non c’entra il moralismo, altrimenti sarebbe come dire: «poveretto, sappiamo com’è, lasciamolo parlare, così poi si zittisce e possiamo continuare con i nostri discorsi». Non è questo. Si tratta di considerare le dimensioni di libertà che ci vengono tolte ogni giorno e di lottare per riconquistarle, per ridare a tutti l’autorità della parola («Donde gli vengono queste cose?»).

Non possiamo continuare a delegare conoscenze, saperi, capacità di intervento. Dobbiamo muoverci verso la strada della «convivialità» – che non è utopia (non-luogo) ma eu-topia (buon-luogo) – intesa in senso sociale e culturale. «Conviviale è la società in cui prevale la possibilità per ciascuno di usare lo strumento per realizzare le proprie intenzioni» (Illich). Una strada verso la gioia e l’amicizia. Un cammino di emancipazione che ci consenta di riprenderci e di rivendicare la libertà di intervenire nella materialità del vivere, nelle nostre città, nelle nostre case, nelle nostre famiglie.

Gabriele

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