20^ Domenica del T.O.

Dio ci nutre attraverso la memoria viva di Gesù

Io sono il pane vivo, disceso dal cielo. Se uno mangia di questo pane vivrà in eterno e il pane che io darò è la mia carne per la vita del mondo». Allora i Giudei si misero a discutere tra di loro: «Come può costui darci la sua carne da mangiare?». Gesù disse: «In verità, in verità vi dico: se non mangiate la carne del Figlio dell’uomo e non bevete il suo sangue, non avrete in voi la vita. Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue ha la vita eterna e io lo risusciterò nell’ultimo giorno. Perché la mia carne è vero cibo e il mio sangue vera bevanda. Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue dimora in me e io in lui. Come il Padre, che ha la vita, ha mandato me e io vivo per il Padre, così anche colui che mangia di me vivrà per me. Questo è il pane disceso dal cielo, non come quello che mangiarono i padri vostri e morirono. Chi mangia questo pane vivrà in eterno» (Giovanni 6, 51-58).

Questo brano costituisce l’ultima sottosezione del confronto con i giudei che si sviluppa nel corso del cap. 6 e che è qui esplicitato, ancora una volta, da una domanda (v.52).

La risposta, introdotta dalla formula “In verità, in verità vi dico…”, pone l’accento sulle condizioni per accedere alla vita eterna, mediante una fraseologia nuova, non presente nel resto del capitolo: “mangiare la carne e bere il sangue”. Il termine “carne” è associato strettamente con il pane che Gesù darà, a sua volta identificato, nelle parole dell’evangelista, con quello disceso dal cielo. Nelle ultime dichiarazioni si ha una progressione esplicita: “mangiare” la carne, mangiare Gesù stesso, mangiare il pane disceso dal cielo. Il tema del nutrimento che rimane, per la “vita eterna”, è stato annunciato da Gesù ai suoi interlocutori fin dall’inizio del capitolo. La vera novità tematica è in questi versetti rappresentata dall’espressione “bere il sangue”.

Difficilmente Gesù ha pronunciato queste parole, anche se l’orizzonte del loro significato ha certamente fatto parte della sua esistenza. L’autore di questi testi ha scritto un vangelo, non un trattato teologico, né un mito. Stupisce il livello del confronto: da una parte Gesù parla in un linguaggio oscuro, dall’altra i giudei non fanno nulla per interpretarlo. I Giudei diventano il simbolo di coloro che non hanno accettato la buona novella, di coloro che non vogliono comprendere.

La comunità di Giovanni sta affrontando la persecuzione che, dopo il 70, era presente oltre il Giordano, nella Galilea settentrionale. I maggiori oppositori del Gesù di Giovanni sono i farisei, non più i sadducei; essi cominciarono a ricostituire e governare Israele in Galilea solo dopo il 90. L’espulsione formale dei cristiani dalle sinagoghe fu una misura difensiva presa dai farisei soltanto in quel periodo. Questo spiegherebbe l’accentuazione sullo status divino di Gesù, dato che il suo ministero terreno era ben conosciuto da tutte le parti coinvolte nel dibattito. In ogni caso i membri della comunità cristiana sapevano, per esperienza diretta, che cosa significasse il martirio e non avrebbero certamente identificato il Gesù crocifisso con un “Dio che marcia sulla terra”.

Sebbene l’evangelista utilizzi un linguaggio permeato di espressioni cultuali e di significati simbolici, nelle parole di Gesù si scorge la consapevolezza di aver intrapreso un cammino segnato da una relazioni di amore verso il prossimo, fino a mettere in gioco la propria esistenza, facendo dono della sua stessa vita. Consapevole di aver ricevuto da Dio il dono della vita e di aver ricevuto da Lui la spinta ad esserGli testimone, Gesù non si è risparmiato, ha vissuto intensamente e concretamente nell’ottica dell’amore e del dono.

Tutto il suo cammino è costellato di atti di generosità e condivisione, di partecipazione: le relazioni con uomini e donne che ha incontrato sono stati momenti in cui ha regalato la sua amicizia, la sua fiducia in Dio, dando coraggio e forza nel trasformare anche le vite più disperate in cammini coraggiosi e consapevoli del senso della vita. Gesù è stato ucciso perché è andato fino in fondo e non ha accettato compromessi; perché ha parlato chiaramente; perché questa è, purtroppo, la sorte dei profeti di tutti i tempi.

Il sangue era ritenuto dagli ebrei la sede della vita. La carne era immagine dell’esistenza dell’uomo e della donna con tutti i loro limiti e debolezze. L’invito di Gesù a mangiare il suo corpo e a bere il suo sangue, può essere letto come la possibilità che ci è offerta di entrare in profonda comunione di pensieri e di vita con lui, sperimentando la sua presenza nel nostro cammino, di ispirarci a lui nelle nostre scelte. Chi segue l’insegnamento di Gesù entra “nel suo corpo e nel suo sangue”, cioè entra nella sua sorte, nel suo cammino storico. Gesù invita noi tutti/e ad intraprendere il suo stesso percorso, facendoci trasformare dalla sua esistenza e dal suo modo appassionato con cui avvicinava le persone e si rivolgeva a Dio.

Vivere nella prospettiva del Regno dei cieli, nel lavoro per la continua sua realizzazione non può essere una scelta di austerità, di seriosità. Gesù ci invita a far risuonare nella nostra vita la gioia che vibrò in lui e nei suoi discepoli e discepole durante la loro vita. Partecipare allo stesso sogno di Gesù di Nazareth e cercare di renderlo un po’ meno sogno ma realtà vivente, questo è mangiare il suo corpo e bere il suo sangue.

Gesù ci invita a nutrirci di quanto lui stesso è stato: del suo insegnamento, di quanto lui stesso ha creduto, della sua fiducia in Dio. Questo “cibo” non si esaurisce, è gratuitamente dispensato da Dio anche attraverso la vita, le azioni, le scelte, attraverso cioè il “corpo e sangue” di uomini e donne che portano dentro di sé il messaggio e realizzano fratellanza, condivisione, accoglienza.

“Mangiare e bere” è il linguaggio del nutrimento. La Bibbia usa spesso questo linguaggio per comunicarci l’amore e la sollecitudine di Dio che nutre il suo popolo nel deserto con la manna e le quaglie (“il pane disceso dal cielo” Esodo 16), che lo disseta facendo sgorgare acqua dalla roccia, che nutre il profeta Elia presso il torrente Cherit (1 Re 17)… Nel Terzo Isaia cap. 66, la cura di Dio per il suo popolo è paragonata a quella di una madre che allatta il suo bimbo.

Ma, come può Gesù darci da mangiare la sua carne? Prendere la frase alla lettera può essere il modo più comodo per non prenderla sul serio, per svalutarne il senso. Nel brano viene ripetuto più volte che Gesù è il pane di vita, che per vivere bisogna “mangiare la sua carne e bere il suo sangue”. Questa insistenza lascia intuire un senso concreto, da mettere in pratica nel contesto quotidiano. Interpretare queste parole solo come invito a istituire un rito sarebbe riduttivo.

Gesù spezza il pane per indicarci la sua totale donazione agli altri, invitando ciascuno/a a fare altrettanto. Con questo gesto egli ci invita a creare concretamente eucarestia nel quotidiano, a coinvolgersi con i fratelli e le sorelle per “offrire in nutrimento la propria vita”, attraverso la condivisione, l’ascolto, la compagnia, il sostegno vicendevole, l’ accoglienza dell’altro/a, il lavoro comune, la preghiera, nella consapevolezza che tutto avviene sotto lo sguardo amorevole di Dio, che tutto è un Suo dono e che dunque la terra, la natura e tutto il creato non ci appartengono ma ci sono state dati in custodia.

Gesù spezza il pane non per creare gesti formali, da istituzionalizzare in rituali e formule, ma per invitarci ad impegnare concretamente noi stessi/e per la vita del mondo, ciascuno come può, secondo i propri talenti. Fare memoria di Gesù, di ciò che ha fatto e detto e cercare di metterlo in pratica: ecco l’eucarestia da celebrare ogni giorno nei rapporti con sorelle e fratelli, ecco la via che porta alla vita, che ci rende operai/e nella costruzione del Regno. Un’esortazione a trasformare i conflitti con la nonviolenza e il rispetto, gli schieramenti in condivisione fraterna, l’individualismo in coinvolgimento e comunione.

Ma gli ascoltatori di allora, come anche noi oggi, sembrano non capire che il discorso vale per ciascuno/a; o forse non vogliono capirlo, perché si tratta di un atteggiamento impegnativo da accogliere e fare proprio. Non è sufficiente il semplice rito (domenicale), che per quanto rivestito di profondo spirito devozionale rischia di rivelarsi sterile, se resta fine a se stesso; occorre praticare l’ ”eucarestia nella vita quotidiana”. Il rito, tuttavia, se è vissuto come richiamo per andare oltre, può avere una funzione importante per attingere a nuove energie, per facilitare l’orientamento sulla via tracciata dal maestro di Nazareth.

Gesù si è nutrito di Dio attraverso la Sua Parola, nella preghiera, nella relazione di totale fiducia ed abbandono a Lui, nell’incontro con le persone. Dio continua a nutrirci attraverso la memoria viva di Gesù.

La lettura, il confronto e la meditazione della Parola, la preghiera personale, lo spezzare il pane durante la celebrazione dell’eucarestia, le relazioni con le persone e con la natura non improntate al possesso ma al dono e all’amore non sono forse un modo con cui Dio nutre le nostre esistenze?

Solo cercando tutti, uomini e donne, di cogliere il valore dei doni che Dio ci ha dato e ai quali Gesù ha testimoniato di aver attinto nella sua vita, possiamo anche noi sentire ed avere il cuore e le mani piene di doni da scambiarci reciprocamente, mettendoci nelle esperienze quotidiane alla sequela di Gesù.

Paolo Sales

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