Lunedì 16 luglio 2012 – Vangelo di Matteo cap. 26

I primi versetti del capitolo 26 (1-5) introducono il racconto della passione di Gesù che segue il discorso escatologico dei cap. 24 e 25. Questo, inizia con la profezia della distruzione del Tempio ed è pronunciato sul Monte degli Ulivi da dove ha appunto inizio la sua passione; possiamo riconoscere che in questi versetti vengono applicati a Gesù i salmi di supplica del giusto e del popolo perseguitato (Sal. 2,1-2; 31,14; 83,4).

vv. 26,6-16

Il racconto della passione si apre con una scena: una donna, probabilmente in una casa a Betania (solo Lc. non lo dice) agisce nel momento centrale della festa. Matteo (e Marco) scrive che si avvicina a Gesù con un vaso di alabastro (prezioso) di olio profumato molto prezioso e glielo versa sul capo (Gv. e Lc. narrano che unse i piedi e li asciugò con i suoi capelli).

L’unzione del capo è il gesto che veniva riservato al re, ai profeti e ai sacerdoti. Nell’antichità l’olio veniva impiegato puro o misto a profumi nella cura del corpo o come segno di gioia. Inoltre veniva usato per imbalsamare i morti e come medicamento. Il nardo preziosissimo era usato dal re.

“Questa donna mi piace, perché ha il coraggio di esprimersi, di manifestare cosa pensa e cosa desidera. ….. Si fida anche di Dio, perché sa che il suo vuole essere semplicemente un gesto d’amore..e come potrebbe il Dio della misericordia non benedirla?”.

Al comportamento della donna segue lo sdegno dei discepoli (per Gv. “Giuda Iscariota”; Mc. “alcuni”; Lc. “i commensali”).

“Purtroppo accade, qualche volta, che quando si compiono dei gesti che intendono semplicemente esprimere l’affetto, si venga fraintesi o semplicemente non capiti o addirittura derisi. Forse, proprio noi donne, ci troviamo spesso in questa situazione e per evitarla ci freniamo in tante manifestazioni di affetto che farebbero tanto bene a chi le fa, ma anche a chi le riceve!”.

Gesù però prende le sue difese, apprezza il suo gesto e ne riconosce davanti a tutti la grandezza (“compiuto un’azione buona”), riconosce in quel gesto semplice e tenero il carattere di “buona notizia” per il mondo.

Da parte della donna c’è una  profonda comprensione del destino di Gesù (profetico) e (come in Marco) il Gesù di Matteo afferma che la sua azione sarà ricordata soprattutto per fare memoria della sua persona, di chi era, del suo coraggio, della sua consapevolezza. Aggiungerei che con questo racconto ogni gesto di amore, di tenerezza, di affetto viene riconosciuto come profetico.

“Ai poveri, sembra voler dire Gesù, che sono sempre con noi, bisogna sempre far del bene, cioè essi sono indiscutibilmente al primo posto, ma non per questo noi dobbiamo negarci dei gesti di affetto che, molte volte, sono proprio quelli che ci danno la giusta carica per riuscire a donare un  po’ di noi stessi, del nostro tempo, del nostro denaro a chi in quel momento è più ‘povero/a’, perché ha meno di noi. Ma quante volte i poveri siamo proprio noi e, non riconoscendo la nostra povertà, crediamo di poter fare a meno di chi ci sta vicino?!!”.

La mancanza di vera comprensione da parte dei discepoli continua durante tutta la narrazione della passione, dove si affianca alle varie presentazioni di donne consapevoli, comprensive e fedeli….Assenti dall’ultima cena e da Getsemani, le donne continuano a fungere da contraltare per i discepoli. (AA.VV., La Bibbia delle Donne)


vv. 26,17-30

E’ dubbio che la cena pasquale di Gesù sia coincisa con la festa di Pesach (Pasqua ebraica). Probabilmente ha anticipato di qualche giorno questa festa (era costume in alcuni ambienti giudaici) aggiungendo consapevolmente un significato di addio (v.29).

Gesù annuncia il tradimento di uno dei suoi (v.24)  ma non c’è né maledizione né condanna. Solo un triste lamento per una azione così grave.

Possiamo leggere nei salmi 41,10 e 55,13-15 lo stesso lamento proprio per il tradimento dell’amico, il compagno, il famigliare.

Non ci vengono comunicate le ragioni che possono aver indotto Giuda a questo gesto (potrebbe non essere Giuda…). E’ stata disegnata la figura del traditore con intento catechetico, non biografico (stortura che ha finito con l’identificare il popolo ebraico con la figura del traditore).

Non si sa con certezza le parole di Gesù che Gesù pronunciò quella sera ma ci sono state trasmesse le formule liturgiche che ci registrano il senso che egli volle dare alla sua morte.

Nella cena Gesù conferma il significato complessivo della sua esistenza e della sua morte.

Secondo il rituale giudaico è possibile che Gesù abbia preso il pane e poi il vino e, prima di distribuirli, abbia pronunciato le benedizioni di rito.

I discepoli, gli evangelisti, le comunità hanno aggiunto, secondo l’interpretazione sacrificale (servo sofferente del primo testamento) le parole “..prendete mangiate e bevete – corpo e sangue”.

La cena pasquale è per il giudaismo un rituale di azione di grazie e il memoriale della liberazione dell’Esodo. In questo contesto, Gesù consuma la cena, canta i salmi e si presenta come agnello pasquale. Il suo sacrificio consistette nell’accettare l’arresto e la morte per fedeltà alla causa del Regno, che poi è la causa del Padre. Egli fece tutto questo come cammino e strumento di solidarietà nei confronti dei fratelli. E’ questa consegna pasquale della sua vita che la cena rivela e significa.  (M. Barros, Il Baule dello Scriba, pag. 199)


vv. 26,31-56

Dal v.31 si descrive una scena che presenta un clima di fallimento. La citazione che viene utilizzata è riportata nel libro di Zaccaria (13,7): “Percuoterò il pastore e saranno disperse le pecore del gregge”.

Viene descritta l’angoscia di Gesù e Matteo parla di “tristezza” mentre per Marco Gesù sentì “paura ed angoscia” e Luca dice che provò angoscia e il sudore diventò gocce di sangue.

Tre volte prega e tre volte si lamenta con i discepoli come le tre tentazioni nel deserto.

Il lamento triste  di Gesù al v. 40  dice la sua solitudine “Così non siete stati capaci di vegliare un’ora sola con me?”: anche questo è tradimento?!

Gesù viene arrestato, protesta ma non reagisce. Questo comportamento, coerente con il suo insegnamento, segnò profondamente la prassi delle comunità cristiane dei primi tempi.


vv. 26,57-75

Gesù viene portato davanti al Sinedrio politico che si occupava dei casi di sedizione ed insurrezione e l’accusa mossa a Gesù “Quest’uomo si dice Re dei giudei” poteva valere per i romani che avendo una cultura diversa dagli ebrei, non erano abituati al vocabolario immaginifico dei discorsi e degli insegnamenti rabbinici.

L’interrogatorio condotto da Caifa è al servizio dei Romani. Da nessuna parte la Legge giudaica considerava un crimine l’autoproclamarsi “ Messia” o “Figlio di Dio”. Se questo costituiva un delitto, lo era per la legge romana.

Questo capitolo termina con il racconto del rinnegamento di Pietro ed il suo amaro pianto.


Alcune considerazioni emerse nel gruppo biblico

Si resta colpiti dal tradimento degli uomini e dalla loro debolezza– se ci fosse stata la madre di Gesù non si sarebbe addormentata – la cura della persona, della vita, delle cose va coltivata – le donne sono cresciute nella consapevolezza perché più vicine degli uomini alla vita, alla morte, alla sofferenza.

I gesti d’amore non sono sempre compresi – siamo molto condizionati dal pensiero legato ai costi e benefici – molte nostre azioni sono subordinate a questa “economia”.

I discepoli che si addormentano non hanno colto la gravità della situazione – nella nostra vita esiste sempre il rischio di non comprendere l’importanza di avvenimenti e relazioni.

L’azione di cura delle donne genera conflitto.

Luciana Bonadio