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I nuovi Sciamani dell'Orgoglio, al Circo Massimo

Nella telenovela politica e organizzativa di questo amaro gaypride, la sede definitiva si assesta ora nel Circo Massimo.

Una spianata bellissima, appena deturpata dal palazzone della Fao, ma incorniciata nei lati lunghi dal verde dei roseti e delle ville dell'Aventino (per altro fittamente popolato di ordini monastìci insediati in basiliche storiche) e dall'altra parte sul Palatino, dalla casa maestosa di Livia Drusilla, moglie di Augusto (la cui famiglia dei Cesari era assai complessa e disinvolta nei rapporti privati, senza dover neppure fare scoop alla Pecoraro Scanio).

Quell'immenso ovale, con un'aura maledetta più letteraria che letteralmente comprovabile, era nell'antichità, come indica il suo nome, luogo di spettacoli, di corse di bighe e di gladiator che non a caso sono appena tornati di gran moda.

Bene, al di là dell'omofobia manifesta di capi di governo, sindaci deboli e vescovi «vicari» che si rivelano ficcanaso effettivi, tanto pluralisti da far affogare città e tv nell'overdose del giubileo, l'appuntamento mondiale si restringe in un classico luogo di spettacolo. E tale del resto è la parata, spettacolo di strada che coinvolge e conquista con il suo solo snodarsi serpentino. Non importano ormai i pruriti delle autorità, o i loro stretti calcoli elettorali, visto che paiono prendere gusto a sberle a raffica.

Il paradosso è che il livello «spettacolare» (o da circo, per quanto Massimo, o da corrida o da gladiator è quello dove il gay pride trova terreno più fertile e antico. Non per via dell'outing che non scandalizza nessuno e fa solo vendere i giornali rosa, e nemmeno perché Priscilla vince dopo la lunga parata nel deserto (l'Australia è lontana, qui a Roma i modelli istituzionali sembrano piuttosto quelli della tecnocratica Singapore dei divieti, dove l'omosessualità è proibita e si rischiano lunghi anni di galera, se non l'ergastolo).

Proprio quando conquista le luci della ribalta, luogo istituzionale dell'illusione, dell'ambiguità, del travestimento, l'Orgoglio pratica un genere, un linguaggio (per quanto rumoroso) destinato a far scambiare i ruoli e i generi.

Per secoli e millenni (e ancora oggi in certe culture) a teatro i ruoli femminili sono stati degli uomini. Ma anche nelle civiltà «evolute», il linguaggio teatrale vive proprio di meticciato. Si mescolano, intrecciano e contendono le diverse partì, che non a caso si chiamano ruoli, come quelli di maschio e di femmina. A teatro un attore fa una parte, per cui entra ed esce da sé ogni sera, come stregoni e sciamani.

Anche da quel Circo, al di là dei facili effetti e trucchi di colore, i nuovi sciamani dell'Orgoglio possono offrire a tanto autoritario perbenismo la trance, e soprattutto una chance: scoprire il bello delle differenze del mondo

Gianfranco Capitta