Foglio di Comunità – n° 2/2016

Bollettino informativo non periodico della Comunità cristiana di base Viottoli
Distribuzione gratuita — Pinerolo (To), 31/01/2016

LE  EUCARESTIE

DOMENICA   14 febbraio ore 10 – a cura di Antonella, Lella e Viviana; dopo la celebrazione, verso le ore 10,30 assemblea di comunità

DOMENICA   28 febbraio ore 10 – sarà presente Rosario Giuè. Nel pomeriggio incontro delle donne (v. più avanti).

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GRUPPO  BIBLICO

Nel gruppo biblico, che si incontra ogni martedì sera alle ore 21 a casa di Carla e Beppe, stiamo leggendo il Vangelo di Giovanni. Le introduzioni e i commenti saranno pubblicati sul prossimo numero di Viottoli.

Martedì 1° marzo, alle ore 21, l’incontro si svolgerà presso il FAT: sarà presente Luisella Festa, che ha accolto il nostro invito a parlarci della sua esperienza.

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ASSEMBLEA  DI  COMUNITA’

Domenica 14 febbraio, al mattino, dopo la celebrazione eucaristica. Seguirà il pranzo comunitario.

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GRUPPO  RICERCA

Giovedì 11 e 25 febbraio, alle ore 21, come sempre a casa di Paola ed Elio. Stiamo concludendo la lettura del libro Le società matriarcali di Heide Goettner Abendroth. Proseguiremo gli incontri leggendo il libro “Donne sciamane” di Morena Luciani, Ed.Venexia. Sono letture estremamente interessanti: il gruppo è aperto a chiunque volesse coinvolgersi.

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GRUPPO  DONNE

Ci incontriamo lunedì 8 febbraio, alle ore 21 a casa di Luciana. Ci confronteremo sui temi proposti per l’incontro con le donne della comunità di Mambre.

Corso “Donne che leggono la Bibbia”: continuano gli incontri alla Cascina Roccafranca di Torino; il 17 febbraio (dalle 17 alle 18,30) il tema sarà “Gesù e le donne”, introdotto da Carla e Doranna.

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INCONTRO CON LE DONNE DELLA CDB DI MAMBRE

Domenica 28 febbraio, dopo l’eucarestia del mattino e il pranzo comunitario, cioè verso le ore 14, ci incontreremo con le donne di Mambre e con tutte quelle che desidereranno partecipare dalle altre cdb del Piemonte. I temi proposti sono stati individuati tra quelli emersi durante l’ultimo collegamento nazionale donne, di cui riportiamo un estratto dal verbale:

Liturgia

Il fatto che nel nostro percorso confluiscano donne che si collocano pienamente dentro la chiesa cattolica, donne che ne stanno ai margini e altre che sviluppano una ricerca spirituale fuori da questi confini, rende difficile la percezione univoca della simbologia rituale. Tre sembrano essere le piste fondamentali da indagare:

1) Quali gesti simbolici presenti nella tradizione religiosa ebraico-cristiana sono stati messi da parte dalla tradizione maschile e possono essere quindi riscoperti e portati a nuova vita, non solo per noi, ma per essere condivisi nei luoghi di spiritualità che frequentiamo?

2) Quali simboli e gesti rituali, anche attinti da altri mondi e altri tempi, si rivelano potentemente significativi per noi? Quale può essere la via privilegiata che consente al gesto simbolico di comunicare gioia, relazione e libertà ai nostri corpi oltre che ai nostri cuori?

3) La ritualità, che propone il gesto simbolico e ne rafforza il significato nella ripetizione, è avvertita da noi come un pericolo o come un’opportunità? In quale modo essa può accogliere la nostra pluralità e diversità, restituendocene la ricchezza?

Confliggere senza distruggere

Il tema della conflittualità è stato considerato meritevole di approfondimento proprio perché solo dipanando questa matassa e trovando il modo d’intrecciare i vari fili si potrà pensare di tessere la nostra tela. Anche l’aiuto esterno di “Identità e differenza” forse potrebbe essere prezioso. Ecco comunque alcuni nodi individuati:

1) Quanto pesa nella conflittualità che agiamo il conflitto interiore, che può attraversare ciascuna di noi?

2) Quale meccanismo trasforma un confronto in conflitto?

3) Quale ruolo giocano il non detto e il bisogno d’essere amate nella creazione di un terreno in cui gli elementi di conflittualità prosperano?

4) Possiamo chiamare conflittuale la relazione nella quale un soggetto si sottrae al confronto e all’assunzione di responsabilità allontanandosi?

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GRUPPO MEDITAZIONE

Ci troviamo ogni venerdì al Fat, vicolo Carceri n° 1 dalle 20 alle 21,30. I nostri incontri prevedono una meditazione guidata di circa un quarto d’ora seguiti da una meditazione silenziosa di un altro quarto d’ora. Poi proseguiamo con la lettura di un testo di Corrado Pensa “La tranquilla passione” condividendo dubbi, comprensioni esperienziali e domande aperte a risposte personali e non sempre immediate. I testi per suscitare le riflessioni e gli approfondimenti sono scelti dal gruppo. Se sei interessata/o puoi presentarti direttamente al Fat

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COLLETTA  DI  NATALE  PER  IL CUAMM

Come saprete, anche quest’anno, durante l’eucarestia di Natale, abbiamo fatto una colletta per continuare a sostenere il CUAMM – Medici con l’Africa Gruppo Piemonte onlus, e in data 15 gennaio abbiamo fatto un versamento di € 370.

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COLLEGAMENTO  NAZIONALE  CDB

La riunione di collegamento nazionale delle CdB si svolgerà a Verona il 13 e 14 febbraio 2016 presso il CUM. Parteciperanno Memo, Paolo e Beppe, che ci riferiranno al ritorno.

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CDB  DEL  PIEMONTE

L’incontro regionale del 22 gennaio scorso si è concluso con una proposta condivisa da tutte le cdb presenti: durante il mese di febbraio le comunità sono invitate a riflettere sugli spunti emersi a Torino e, in particolare, individuare un tema da proporre per la ricerca “regionale” nel corso dell’anno. Cesare Melillo di Piossasco invierà a tutte le comunità il testo dell’intervento introduttivo cha ha fatto il 22 a To.

L’11 marzo, alle ore 18 a Opportunanda (Torino) ci riuniremo per confrontare le varie proposte emerse e cercare di concordare un filone unico su cui impegnare la ricerca di tutte le cdb del Piemonte.

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EDUCARCI  ALLA  PACE  –  USCIRE  DALLA  GUERRA

Venerdì 26 febbraio nel salone del Museo Diocesano in via Del Pino a Pinerolo, è convocato un incontro pubblico che sarà introdotto da Renato Sacco, coordinatore nazionale di Pax Christi, sul tema “Religioni e guerre”. A giorni sarà pronto il volantino con tutte le informazioni precise: lo metteremo immediatamente in circolazione.

Luciano, Domenico e Beppe

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ROSARIO  GIUE’  A  PINEROLO

Rosario Giuè è un prete palermitano autore di libri sulla mafia, come “Il costo della memoria. Don Peppe Diana, il prete ucciso dalla camorra” (che è venuto a presentare a Pinerolo anni fa); “Peccato di mafia. Potere criminale e questioni pastorali”; e l’ultimo “Vescovi e potere mafioso”.

Anche questa volta ha accolto il nostro invito e sarà a Pinerolo per un incontro pubblico sabato 27 febbraio dalle 16 alle 19 nel saloncino dell’ARCI, stradale Baudenasca 17. Con altre associazioni (Libera, DireFareEcosolidale, Pensieri in piazza…) stiamo preparando un volantino che sarà presto in circolazione.

Il tema che gli abbiamo chiesto di affrontare è legato alla presenza ormai acclarata e forte delle associazioni mafiose nel nord Italia e in Piemonte in particolare.

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ROSARIO GIUE’, Vescovi e potere mafioso, Cittadella Editrice, Assisi 2015

E’ un libro che mi sembra importante: di critica ai ritardi e alle mancanze della gerarchia cattolica rispetto agli enormi problemi posti dalla cultura e dalle istituzioni mafiose e, insieme, un libro che offre spunti di speranza alla nostra società e alla comunità dei e delle credenti. Ne parleremo con l’autore a Pinerolo (v. a pag. 3); qui mi limito a trascrivere un breve passo dal cap. 9, che analizza il documento dell’episcopato italiano del 21 febbraio 2010, dal titolo “Per un Paese solidale. Chiesa italiana e Mezzogiorno”, in cui si denuncia la mafia come “piaga” della società. Commenta Giuè a pag. 140:

“In Per un Paese solidale si afferma, sempre al paragrafo n. 9, che la Chiesa sulla questione della ‘criminalità’ pronuncia solo «parole propriamente cristiane e tipicamente evangeliche, come ‘peccato’, ‘conversione’, ‘pentimento’, ‘diritto e giudizio di Dio’, ‘martirio’». Si precisa che queste parole sono «le sole che permettono di offrire un contributo specifico». Ma così facendo, mentre sulla questione mafia ci si autolimita dentro il terreno delle «parole propriamente cristiane e tipicamente evangeliche», non si considera che questa autolimitazione non è avvenuta in altri campi e momenti della vita del Paese. Su questioni diverse dalla mafia, come quelle etiche, sulla famiglia o sull’impegno politico dei cattolici, è accaduto che non ci si è limitati a dire parole «propriamente cristiane e tipicamente evangeliche». Ci si è esposti anche sul piano politico e legislativo.

Certamente, «offrire un contributo specifico alla formazione di una rinnovata coscienza cristiana e civile» è importante. Ma sulle questioni cosiddette ‘etiche’ e sui ‘valori’ cattolici non ci si è limitati alla formazione delle coscienze.  Su quelle questioni ci si è impegnati nell’utilizzo anche di altre vie e mezzi, compresi quelli legislativi e politici. Così accade che sulla questione del potere mafioso l’Episcopato italiano ritiene di doversi limitare alla formazione delle coscienze, senza prefigurare un impegno ecclesiale di tipo istituzionale diretto nella lotta di liberazione dalla mafia. E, invece, sulle cosiddette questioni ‘antropologiche’ si è ritenuto che le «coscienze» vadano vincolate anche nell’espressione del voto dei parlamentari cattolici. Su alcune questioni, dunque, si mette in campo la propria influenza politica, mentre su questioni come il potere mafioso ci si limita all’impegno per la «formazione delle coscienze». (…)

L’Episcopato italiano nel documento Per un Paese solidale, se avesse chiesto perdono alla società italiana per le responsabilità storiche della dirigenza della Chiesa cattolica di fronte al potere mafioso, avrebbe compiuto un gesto importante. Un gesto davvero storico che, certo, avrebbe potuto magari accompagnare con un progetto pastorale specifico sulla questione mafie a livello nazionale. Così avrebbe profuso lo stesso impegno dedicato all’attuazione del ‘Progetto culturale’ sulle questioni etiche ed educative. Ma non è stato chiesto alcun perdono, non è stata riconosciuta alcuna propria responsabilità storico-religiosa come causa dello sviluppo e del persistere del potere mafioso in Italia”.

Beppe

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VIOTTOLI

Prossima redazione: domenica 7 febbraio, ore 20,30, a casa di Carla e Beppe.

E’ arrivato il n. 2 del 2015 del nostro semestrale Viottoli. Su questo numero trovate:

Redazionale: Guerre. Non è una questione di religioni…

Letture bibliche

Introduzioni preparate dal gruppo biblico settimanale ai libri di Qohelet e di Giobbe; riflessioni di chi cura la predicazione durante le assemblee eucaristiche della comunità

Preghiere personali

Teologia, politica e cultura

Chiesa di base che cammina. Testimonianze di Giovanni Franzoni, Antonietta Potente ed Enrico Peyretti.
La spiritualità della fraternità Anawim di Lilia Sebastiani
Santippe. La conosci? di Ina Praetorius
Chiese, anime, corpi: di donne e di uomini di Paola Cavallari
La passione della differenza sessuale di Chiara Zamboni
Migrazioni che si incrociano di Elisa Ferrero
Così misteriosamente diversi di Alberto Fierro

Recensioni e segnalazioni

Ringraziamo tutti/e coloro che tramite email e telefono ci contattano e per gli apprezzamenti che riceviamo. Vi invitiamo a collaborare mandandoci articoli, riflessioni, preghiere, recensioni…

Ricordiamo la quota associativa: 25,00 € (socio ordinario) – 50,00 € (socio sostenitore); oppure potete versare un contributo libero utilizzando il ccp n. 39060108 intestato a: Associazione Viottoli – via Martiri del XXI, 86 – 10064 Pinerolo (TO) o con bonifico bancario: IBAN: IT 25 I 07601 01000 000039060108   BIC/SWIFT: BPPIITRRXXX

Vi invitiamo inoltre a richiedere copie saggio gratuite del nostro semestrale (per informazioni: viottoli@gmail.com). Sono disponibili alcune raccolte complete con tutti i numeri della rivista dal 1992 a oggi.

Sul nostro sito http://www.cdbpinerolo.it cliccando su VIOTTOLI —> ARCHIVIO DEI NUMERI ARRETRATI trovate, e potete scaricare gratuitamente, tutti i numeri in formato *.pdf dal 1998 al 2014.

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UOMINI  IN CAMMINO DI PINEROLO

Il gruppo UinC 1 si riunisce al FAT giovedì 4 e 18 febbraio e 3 marzo con le consuete modalità.

Il gruppo UinC 2 si riunirà nella sede dell’ARCI mercoledì 17 febbraio e 2 marzo, alle ore 21.

Ricordiamo infine agli uomini che leggono questo foglio che i due gruppi sono sempre aperti a chi sente il desiderio di conoscerci o di coinvolgersi. Basta una telefonata per un contatto preventivo con uno di noi.

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Daniela  Degan  e  l’economia  del  dono

Venerdì 5 e Sabato 6 febbraio 2016 a Stranamore, via Bignone 89, Pinerolo

Venerdì 5  ore 21 – per il ciclo di riflessione sulle “Altre ECOnomie”, organizzato dal GAS di Pinerolo e dall’associazione Direfarecosolidale (a cui aderiamo come Viottoli, CdB e Uomini in Cammino), Daniela Degan introdurrà un incontro dibattito sul tema: “Economia di cura, Economia del dono”

Dalla nascita ai primi anni di vita le bambine e i bambini crescono in un’economia del dono, necessaria alla loro sopravvivenza. La pratica materna, basata su complesse interazioni di doni e al cui interno hanno un ruolo attivo sia la madre che i piccoli, permette la continuità della vita. Tali relazioni primarie costituiscono le fondamenta di un’economia ricca di significati e capace di creare comunità. E’ questa economia, alternativa al mercato e al patriarcato, che nelle società indigene equalitarie sopravvive ancora ma che, a livello globale, viene continuamente sfruttata e screditata dal sistema dominante. Molte sono le persone e i movimenti che cercano di attuare un’economia alternativa, ma le radici materne dell’economia del dono spesso non sono riconosciute.  (…)

Ma l’economia del dono, la cura gratuita degli altri, esiste ancora, anche in seno al capitalismo, perché non si può fare a meno della cura dei bambini piccoli che fino a 4 o 5 anni non capiscono lo scambio o il denaro. Questo fatto fa sì che ognuno/a di noi incomincia la vita in un’economia di dono e di cura, che è in contraddizione con l’economia di mercato della società che ci circonda.

Le persone incaricate dalla società a questa economia alternativa, che è un vero modo di distribuzione di beni ai bisogni, sono per lo più le madri. E’ questa economia che è alla base delle nostre migliori qualità come specie, vedi il linguaggio e la collaborazione. E’ la struttura economica che funziona come base ai valori sovrastrutturali della cura.

Il capitalismo patriarcale sta dimostrando ora in modo palese la sua incapacità a soddisfare i bisogni di tutti. Infatti, funziona togliendo i doni ai molti per canalizzarli ai pochi, creando la penuria dei molti che li rende più facili da controllare. Poi getta via quest’abbondanza nelle guerre o nelle bolle finanziarie.

Bisognerebbe avere una prospettiva più ampia per poter valutare la cura e non vederla solo come vittima del mercato dovuta ad una qualche supposta tendenza femminile al sacrificio. Invece la si può vedere come la radice di un’altra economia necessaria e possibile e che chi la pratica, sopratutto donne, in qualche modo già riconosce.

(Tratto e liberamente adattato da uno scritto di Genevieve Vaughan)
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Sabato 6  ore 15 – 18

Laboratorio per sperimentare Altre ECOnomie.

Cura e manutenzione del mondo tra maschile e femminile

Laboratorio ludico pedagogico a cura di Daniela Degan.

Il laboratorio sarà incentrato sui alcuni di questi temi: Matriarcato – Economia del Dono – equilibrio nelle relazioni tra generi, persone e Madre Terra, paradigmi di cura e manutenzione del mondo, costruendo pratiche di realizzazione di “società delle decrescite”.

Per partecipare al laboratorio prenotatevi telefonando al 3356752257 (Paolo Bertolotti): dobbiamo comprare un po’ di materiale per il laboratorio e, se sappiamo il numero di partecipanti, facciamo le cose al meglio e non sprechiamo.

Il laboratorio è completamente gratuito: è un dono di Daniela a noi tutti e tutte!! E’ un’occasione unica per fare un’esperienza interessante. Non mancate!!

Paolo Bertolotti

Daniela Degan vive e lavora a Roma. Ha studiato economia ed è formatrice sui temi dell’economia alternativa, della decrescita, delle metodologie partecipative volte al consenso.

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Le Cdb italiane e il dibattito parlamentare sulle unioni civili

COMUNITA’ CRISTIANE DI BASE
Segreteria Tecnica Nazionale

Bologna, 16 gennaio 2016

Una trentina di parlamentari PD hanno recentemente espresso il loro dissenso nei confronti della maggioranza del loro partito a proposito della proposta di legge sulle unioni civili motivando il loro orientamento in quanto “cattolici”. Nessuno mette in discussione il loro diritto politico di intervenire nel dibattito pubblico, come è conforme a qualunque democrazia che sia autenticamente tale.

Quello che ci sconcerta e ci sorprende, e a dir il vero anche ci irrita, è l’aver motivato come “cattolici” la loro presa di posizione. Perché questo parte dal presupposto (infondato e illegittimo) che il mondo cattolico sia un’entità compatta e omogenea, ignara del pluralismo, come invece è ormai evidente da quando è scomparso il collateralismo fede-politica (DC poi UDC come rappresentanti del cattolicesimo italiano).

Avremmo preferito che quei parlamentari si definissero come liberi e responsabili cittadini tout court “, o semmai come “alcuni cattolici”, senza alcuna pretesa di ergersi a titolari di un diritto di rappresentanza universale dei credenti italiani, dimenticando in questo modo che ci sono moltissimi cattolici che, anche in fatto di unioni civili, la pensano in modo radicalmente diverso da loro.

Dietro questa pretesa se ne cela anche un’altra, quella di poter e dover veicolare nel mondo politico le posizioni espresse dalla maggioranza della gerarchia cattolica.

Quello che come Comunità di Base abbiamo sempre affermato è invece che la sfera della politica (guidata dalla responsabilità e dalla coscienza personale) è assolutamente autonoma e non può in alcun modo essere vincolata a direttive dell’autorità ecclesiastica che, in materie delicatissime come la legislazione statale, non hanno alcun titolo per esercitare interferenze sullo Stato presentando come vincolanti per i legislatori “cattolici” i proprio giudizi e i propri orientamenti.

Sarebbe bene piuttosto che la Cei promuovesse su queste tematiche un libero confronto e una discussione sincera fra tutti i cattolici, senza pretendere di riservare al clero il monopolio del retto giudizio evangelico.

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COMUNITA’ CRISTIANE DI BASE
Segreteria Tecnica Nazionale
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Monoteismi e politeismi a confronto

MAURIZIO BETTINI, Elogio del politeismo. Quello che possiamo imparare oggi dalle religioni antiche, ed Il Mulino 2014

Un libro che mi ha sorpreso. L’autore insegna Antropologia del Mondo antico all’Università di Siena e collabora con La Repubblica. Prende le mosse da due fatti di cronaca. Il primo è la decisione di alcuni insegnanti e dirigenti di varie scuole italiane di rinunciare al presepio per non urtare la suscettibilità di bambini e genitori estranei alla tradizione cattolica, in particolare islamici. Il secondo è la minaccia di usare l’esplosivo, da parte di Oriana Fallaci, per far saltare la moschea di Colle Val d’Elsa, in Toscana, che si voleva costruire. “Da un estremo all’altro, da un massimo di tolleranza religiosa a un massimo di intolleranza religiosa” chiosa l’autore, per il quale “entrambe le scelte (…) derivano paradossalmente dal medesimo quadro mentale: quello costituito dalla convinzione profonda, e spesso talmente interiorizzata da risultare inconscia, che non possa esservi se non un solo e unico Dio. (…) quello che risulta difficile, se non impossibile, concepire, a motivo dei quadri mentali derivanti dal monoteismo esclusivista, è la possibilità che si possano venerare due o più divinità nello stesso luogo, ancor meno che si possa onorarle allo stesso tempo: in una parola, che si possa essere politeisti. (…) essere politeisti implicherebbe che la stessa persona, e allo stesso titolo, potrebbe celebrare tanto il Natale, con relativo presepio, quanto il Ramadan; che potrebbe recarsi a onorare la divinità tanto nella chiesa di S. Caterina a Colle Val d’Elsa, quanto nella moschea che sorge nella medesima cittadina. Anzi, uscire dall’una per entrare nell’altra” (pagg 21-23).

L’autore sviluppa questa tesi, documentandola con la sua profonda conoscenza delle religioni antiche: quello dei popoli politeisti era “un atteggiamento flessibile, spontaneamente capace di creare integrazione e fusione, non separazione, fra sistemi religiosi differenti”. Le loro guerre erano di dominio e conquista, ma non di religione: perché il vincitore, che aveva un pantheon ricco di molte divinità, faceva proprie volentieri anche le divinità dei vinti. Invece, nel Catechismo “la religione cristiana cattolica è presentata come la ‘vera’ religione, tanto che tutti gli uomini, in forza della loro stessa  ‘natura’, non solo sono tenuti a cercare questa ‘verità’, ma anche ad abbracciarla e a farla conoscere agli altri. (…) Come potrebbero esistere contemporaneamente due verità…?”.

Ma, poi, non è che “i monoteismi sarebbero forse dei politeismi mascherati?” – è il titolo del capitolo X, dove paragona “il potere assegnato ai singoli santi… e alle varie Madonne… sulla base delle varie sfere di intervento (S. Rocco = il morso dei cani, S. Lucia = la vista, S. Venanzio = le cadute)” ai diversi compiti che i Romani assegnavano alle loro divinità (Lucina = la nascita, Ianus = gli inizi, Bellona = la guerra). Anche i santi patroni di una città (S. Gennaro a Napoli, S. Pietro a Roma,…) funzionano come Artemide per Efeso o Hera per Argo (p. 77).

Altra riflessione importante e stimolante è questa: ‘politeismo’, ‘paganesimo’ e ‘idolatria’ sono termini”che nascono tutti all’interno del campo del dio unico. Usarli dunque per definire la religione dei Greci e dei Romani significa come minimo parlarne adottando una prospettiva ebraica o cristiana; e, come massimo, dare delle religioni antiche un’immagine degradante” (p.110). E “gli storici del cristianesimo continuano a interrogarsi sulla seguente contraddizione: se da un lato il cristianesimo è una religione che propugna l’amore per il prossimo, anzi addirittura per il nemico, dall’altro ha perseguitato coloro che rifiutavano di accettarne il messaggio, o che ne proponevano una qualche variante sgradita” (p. 132).

Beppe Pavan

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Fede senza teologia?

Dopo avere rivisitato il concetto di un Dio antropomorfo e avere riscoperto, sulle tracce di una ricerca teologica liberata da vincoli di fedeltà ai dogmi e alla tradizioni, grazie al metodo storico-critico, il Gesù storico, ebreo disobbediente di Galilea, le Comunità di base italiane sanno che devono compiere un salto di qualità che consegni al terreno di una nuova e più radicale ricerca quello che un tempo chiamavamo la sequela di Gesù.Lo auspica Fausto Tortora nel suo intervento sul sito delle Cdb rispondendo all’interrogativo Una nuova sfida per le Cdb? convinto che è sempre doveroso sottoporre le nostre azioni al vaglio analitico di una critica severa e ricorrente.

Proprio questo costante impegno a mettersi in discussione nel confronto con il rapido divenire della società e della comunità ecclesiale ha consentito al movimento di continuare, pur se a ranghi ridotti, nella sua esperienza di chiesa di base. Diventa così urgente raccogliere l’invito a compiere il salto di qualità proposto da Tortora cercando di individuarne la direzione.

A mio avviso il salto consiste nel rinunciare definitivamente ad ogni ricerca di nuovo confronto col divino, che, del resto, non è stata mai preminente fra le Cdb nella loro ricerca di identità nella fede.

Nel loro costante riferimento alla Parola non hanno trovato sollecitazioni in tal senso, la stessa Bibbia in verità non dice mai chi è Dio, non ne dimostra l’esistenza e non ne parla mai come un oggetto della conoscenza umana, come recita il Dizionario biblico, pur qualificandolo con vari nomi, di cui uno che gli ebrei credevano impronunciabile.

Eppure Dio è presente e parla in tutta la Bibbia. Forse sarebbe meglio prendere sul serio la risposta di Gesù a chi gli chiedeva di mostrare il volto di Dio: chi vede me vede il Padre (Giov.14;9) e credere veramente nella sua solenne dichiarazione: Io e il Padre siamo uno (Giov. 3,35).

Ai suoi fedeli, invece, fin dai primi secoli è sembrato troppo poco nel confrontarsi con chi era abituato a fare i conti con il dio dei filosofi. E’ nato, così, il dio dei teologi che, con Agostino e Tommaso, si è modellato con quello di Platone e di Aristotele e nei secoli successivi è venuto mutuando aggiustamenti da nuovi modelli filosofici. Inascoltati sono restati i cultori di una “teologia negativa” che sostenevano che di Dio si può solo dire quello che non è.

Nel tempo si sono così riempite intere biblioteche di libri di teologia e moltiplicate le dispute teologiche, risolte con le dichiarazioni dogmatiche che hanno portato ai roghi per bruciare gli eretici o, peggio, hanno fornito riferimenti ideali a guerre che, perciò, si chiamavano di religione. Ai nostri giorni l’incauto riferimento ad una “teologia della liberazione” ha portato a condanne ed espulsioni preti colpevoli solo di voler rendere i loro battezzati consapevolmente cristiani e perciò capaci di rivendicare la loro dignità di uomini!

Anche papa Francesco è assillato da chi vuole Verità e non Misericordia! Forse dovremmo prendere nuova forza dal suo rilancio del primato della prassi/amore per adeguare i nostri modi di vivere la fede in Gesù di Nazareth alle esigenze di quel prossimo il cui amore nel comandamento supremo viene considerato la misura del nostro amore per Dio.

Marcello Vigli
Cdb San Paolo – Roma

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Ho letto la riflessione di Fausto Tortora… (quale futuro per le comunità di base)

Da anni ci confrontiamo con la domanda, che torna periodicamente nelle preoccupazioni e nelle parole di qualcuno/a, su “quale futuro per le comunità di base”.

Ricordo la festa a Roma per i 30 anni della CdB di S. Paolo e le lodi di Raniero La Valle per l’insuperabile capacità biblico-esegetica di Giovanni Franzoni. Mi ero permesso di suggerire che non eravamo arrivati al top, che il femminismo e, in particolare, le teologie femministe ci stavano aprendo un orizzonte nuovo e impensato per la nostra ricerca biblica e teologica: avremmo avuto – e abbiamo, indubbiamente – un terreno “nuovo” da esplorare, con una metodologia nuova che ci viene da loro offerta. Le religioni della Madre, pre-patriarcali; la loro influenza sulla formazione di Gesù; la consapevolezza della parzialità maschile; l’ermeneutica del sospetto… non possiamo più vivere, ricercare, pregare, senza aprirci al punto di vista femminista su ogni “questione”, senza abbandonare con consapevolezza e convinzione il “mono”-pensiero maschile patriarcale.

L’ultimo libro di Elisabeth Green Padre nostro? (Claudiana) – in particolare i due ultimi capitoli – è illuminante, con le riflessioni e le domande che pone a chi lo legge con attenzione.

L’ordine simbolico di Gesù

Se smettessimo di puntare sull’identità “cristiana” e facessimo della sequela di Gesù la nostra personale pratica quotidiana, silenziosa e convinta, al punto che non solo la sinistra non sappia cosa fa la destra, ma addirittura che nessuno sappia che siamo cristiani/e, concentrandoci invece sulla nostra piena appartenenza all’umanità, senza fare distinzioni, ma vivendo consapevolmente la convivialità di tutte le differenze!… “I redattori dei vangeli non attribuiscono a Gesù nessun atteggiamento misogino (…) presentano un Gesù che capovolge le strutture patriarcali dell’epoca mettendo al centro del suo movimento i bambini e i minimi (E. Green, op. cit. p 84).

Questo penso che sia il futuro per i e le seguaci di Gesù. Un mondo in cui non ci siano più religioni escludenti, nel quale i nomi con cui si prega e si parla dell’Essere divino soprannaturale non siano altro che nomi diversi nelle diverse lingue, come l’infinità di parole diverse che l’umanità usa per dire mamma, tavolo, amore…

C’è una pagina bellissima, che voglio trascrivere integralmente, nel libro Lo sguardo del lupo di Giancarlo Ferron, guardiacaccia e scrittore di montagna (ed. Biblioteca dell’immagine, Pordenone, 2015). La protagonista, per preparare la tesi di laurea, ha accettato la proposta del professore di etologia di vivere per alcuni mesi in montagna… e un giorno il  le chiede di parlargli dell’esperienza che sta facendo:

Questo è il momento della verità, caro prof, in cui devo parlarti francamente. Qui ho vissuto situazioni e visto cose che nessun libro e nessun professore potrà mai spiegare. Sono state… sensazioni violente, apparizioni inaspettate, magie folgoranti, che mi hanno fatto… che mi hanno fatto anche piangere. Mi hanno sconvolto, nel bene e nel male. sono state esperienze talmente forti da farmi cambiare il modo di concepire il mondo. Ora penso costantemente alle origini dell’uomo, al suo posto nell’universo, alle sue religioni, al suo rapporto antico con gli animali e la terra. Penso sempre all’arte, alla natura, all’istinto, al ruolo dei sensi nei rapporti con la ragione. Penso ai sentimenti. Penso all’uomo come una parte del tutto e non come a un essere superiore. La cultura del nostro tempo, la scienza, tende a dividere, sezionare, classificare e misurare tutto, anche l’uomo. Corpo e anima, cuore e cervello, istinto e ragione. Organi e funzioni. Certo, si studiano anche le connessioni e l’insieme, ma la tendenza è sempre quella di dividere in singoli pezzi. Invece qui, in questo strano e bellissimo posto, è tutto il contrario. Sembra che non si possa dividere niente, che non si possa isolare una singola parte di nulla, perché quando tenti di farlo, anche solo virtualmente, vieni risucchiato in un vortice che ti trascina a fondo; in una spirale che non finisce mai, che ti ubriaca fino a farti svenire. Una qualsiasi cosa ne contiene altre due di più enigmatiche e grandiose, per una infinita progressione geometrica in tutte le direzioni. L’insieme è sempre superiore alla somma delle parti, ma talmente superiore che non si riesce a immaginarne i confini. Qui ci sono persone strane solo per il fatto di essere nate o vissute su questa montagna. Ogni persona che ho conosciuto, anche se per pochi istanti, mi ha indicato una direzione, mi ha mostrato qualcosa di straordinario, che magari non ho compreso subito ma che si è rivelato più tardi, pensandoci. Tutti hanno un segreto personale più altri segreti di cui possono parlare solo con alcuni. Certe informazioni sono stratificate e possono circolare solo in un certo livello, come se tanti mondi tentacolari e sovrapposti convivessero abbracciati strettamente, nello stesso spazio, e comunicassero fra loro esclusivamente tramite le vie sensoriali di alcuni soggetti. Per soggetti non intendo solo uomini, ma qualsiasi essere vivente. Una specie di groviglio infinito di cellule nervose interconnesse come in un gigantesco cervello. Altre informazioni sono per tutti: animali, alberi, uomini e perfino la terra comunicano fra loro tramite segnali, sensazioni e intuizioni, diverse per ognuno. Un intreccio incredibile, difficile e affascinante. Rapporti fatti di poche parole, di silenzi, di allusioni, di cose non dette, risposte mancate e sensazioni. In questo posto chi vuol capire capisce, magari non tutto e subito, e sempre a proprie spese, ma c’è comunque lo spazio e il tempo per provare a farlo. L’unica cosa certa è che non c’è nulla di preciso, di sicuro, di misurabile. Ogni cosa è strettamente soggettiva, personale. Ogni strumento di misurazione tecnologico è utile: come si fa a misurare la bellezza? Come si fa a misurare, descrivere, dipingere o riprodurre l’ululato di un lupo in piena notte? O raccontare l’emozione dell’istante in cui un animaletto qualsiasi incrocia il tuo sguardo? Non si può. Eppure ce ne sarebbero di cose da misurare: il respiro che si ferma, la presenza di un feromone nell’aria, il battito del cuore che accelera, il PH di una lacrima, la temperatura. Ma sarebbe tutto inutile, perché questi dati non direbbero nulla di quel momento, che mentre lo vivi è già finito. Puff, scomparso. Eppure presente per sempre in te. Resta il fatto che ciascuno ha un compito preciso che si è scelto consapevolmente o meno e che fa la differenza. Scegliere è la parola magica. Scegliere di vivere qui, di non andartene se ci sei nato, oppure venirci ad abitare apposta, consapevolmente” (pagg. 173-175).

Il prof commenta così il discorso della ragazza: “Certi pensieri saranno punti di partenza per molte persone, credimi. Mi è piaciuta anche la tua parola magica ‘scegliere’”.

Chi ha fatto una scelta radicale è l’altro protagonista del libro: era ingegnere in un’azienda costruttrice di macchinari per escavazioni e costruzioni e lì, a poco a poco, ha maturato la sua consapevolezza: “L’uomo, grazie alla sua capacità di coalizzarsi, di realizzare strumenti e sostanze che in natura non esistono, è riuscito a modificare l’aspetto del mondo. Ha cambiato i connotati del territorio costruendo paesi, città e zone industriali: una crosta di cemento, asfalto e rifiuti con la quale ha seppellito campi, boschi, fiumi. Tutto. L’uomo ha distrutto, ucciso e cambiato ciò che si opponeva alla sua idea di onnipotenza. Ha trasformato animali selvatici in bestie da soma, da carne e da latte, incapaci di mangiare e difendersi da soli. Ha distrutto intere popolazioni di predatori perché non danneggiassero gli allevamenti. Ha distribuito veleni dappertutto per uccidere insetti, erbe e funghi che gli davano fastidio.

(…) Ho cominciato a osservare me stesso, quello che facevo, che vita vivevo. Mi sono chiesto se avevo delle responsabilità per quello che la mia specie ha fatto e continua a fare a Madre Terra. Ho concluso che sì, ero anch’io responsabile come consumatore di pioggia in bottiglia, come venditore di macchine che scavano, e come accumulatore di ricchezza economica che non mi era indispensabile per vivere. Mi sono chiesto se io, con le mie forze, avrei potuto cambiare le cose. No, non avrei potuto. Quindi, se avessi cambiato il mio modo di vivere non sarebbe servito a nessuno. Con una sola eccezione: sarebbe stato meglio per me. Non è poco” (pagg. 178-179).

Un altro punto di vista

C’è sempre un altro punto di vista, e l’esperienza mi va dicendo che è quasi sempre quello di donne femministe: ce lo siamo detti/e rileggendo nel gruppo biblico e riflettendo sulla Santippe di Ina Praetorius (Viottoli 2/15). La morte di Socrate è sempre stata raccontata con lui al centro della scena; Ina prova a mettersi dal punto di vista della moglie del filosofo, che viene cacciata dalla stanza insieme al figlio perché con le sue lamentazioni disturba il filosofare maschile intorno alla morte e all’aldilà. Impensabile e sorprendente, questo punto di vista, che apre spazio a riflessioni di un’attualità drammatica sull’economia…

E’ così, ad esempio, per la storia del processo di ominazione: il mito di Adamo ed Eva ci viene sempre raccontato dall’unico punto di vista “autorizzato”, quello della teologia patriarcale. Ma per tutte le “cose” e le “questioni” c’è sempre almeno un altro punto di vista, che è coerente con la parzialità del maschile e del femminile, parzialità che non è semplice differenza, bensì differenza irriducibile. Non sono l’unico a pensarlo e a dirlo, questo “concetto”, ma quanto è cosa difficile esserne davvero consapevoli e vivere ogni istante con questa consapevolezza!

Ecco un compito universale, quindi anche per noi delle CdB alla ricerca di un futuro per il nostro stare al mondo: essere consapevoli della nostra corresponsabilità e, insieme, che certi pensieri sono sempre stati e continueranno ad essere “punti di partenza” per altre persone. Non importa che si interrompa il filo che per una manciata di anni ha unito le nostre vite in comunità cristiane di base; quello che non solo non si deve spezzare, ma anzi si deve rafforzare, è il filo vitale che ci lega alla vita del creato, il cordone ombelicale che ci unisce al corpo nutriente della nostra Madre Terra.

Non c’è amore che non sia evangelico: questo credo fermamente. Ogni uomo e ogni donna che vive con amore sincero le proprie relazioni incarna il messaggio di Gesù, anche se non l’ha mai sentito nominare, e ne continua l’opera: l’opera di Gesù e dell’ordine simbolico materno in cui è nato, si è formato ed è vissuto.

Il dono gratuito

La vita come dono, l’economia del dono, vivere e governare la casa comune con impegno gratuito e disinteressato: è o non è questo il compito per la vita di chi sceglie di vivere “da cristiano/a”? Difficile è riuscirci… Mi turba e mi coinvolge la riflessione di Valentina Pazé a pag. 15 de Il Manifesto del 9 gennaio scorso, in un articolo sulla maternità surrogata: cita molti libri e parla di “una mole di studi antropologici, psicologici, sociologici che (…) ci dicono che, in realtà, il dono davvero gratuito non esiste. Dalla notte dei tempi, il dono è uno strumento per creare e rinsaldare legami sociali. Comporta sempre l’aspettativa di una restituzione, non intesa nei termini contabili dello scambio mercantile, ma in quelli morali e relazionali propri del paradigma della reciprocità”. Mi convince la conclusione che ne trae a proposito della “maternità surrogata a favore di estranei (…) che nella maggioranza dei casi, oggi, nel mondo, avviene dietro compenso (talvolta mascherato da rimborso spese o regalo)”.

Ma mi interroga il paradigma della reciprocità: se ogni persona si esercitasse e imparasse a vivere con cura gratuita e disinteressata – alla “buon samaritano”, per capirci – le proprie relazioni, ogni persona riceverebbe da chi è in relazione con lei esattamente quello che dà, senza bisogno di concordarlo preventivamente e senza aspettarne la restituzione. La relazione madre-figlio/a mi dice che è possibile, e il cammino di questi anni mi dice che è possibile anche agli uomini imparare a stare nelle relazioni con cura e gratuità. La difficoltà nasce dal nostro istintivo egocentrismo: perché devo cominciare io? e se poi gli altri non fanno altrettanto? aspettiamo che comincino gli altri... E’ come per le faide sanguinose: non si interrompono finché qualcuno non sceglie di farlo per primo.

L’amore è contagioso, la gratuità è contagiosa. Ma a patto di seguire l’esempio di Gesù – e di ogni madre: partire ciascuno/a da sé. Temo che non ci siano scorciatoie. Ma, di nuovo, sono pratiche (e pensieri e parole) che possono diventare punti di partenza per altri. Dalle donne femministe lo stiamo apprendendo anche noi uomini, che poi a volte riusciamo a contagiare un altro…

E’ la strada della conversione, del cambiamento di vita che, di nuovo, è l’invito di Gesù a uomini e donne: anche questo è compito per chi vive con fede-fiducia la propria appartenenza all’unica grande comunità di base che è l’umanità (come ce ne ha parlato a Torino Antonietta Potente).

Mentre scrivo queste cose è arrivata online una riflessione di Gerardo Lutte intitolato Donne nuove e uomini nuovi per una nuova società. Contiene proposte di vita e di impegno per i ragazzi e le ragazze del Mojoca (Movimento dei Giovani della Strada) in Guatemala, ma che possiamo tranquillamente fare nostre. Tranquillamente forse no, vista la fatica che ci costano e la facilità con cui ci giriamo dall’altra parte…

Metamorfosi in America Latina

La riflessione, mi accorgo, può ampliare il proprio orizzonte. Su Le Monde Diplomatique di gennaio 2016 ho letto un articolo di Renaud Lambert che dà conto della metamorfosi in atto in America Latina, indagando “le ragioni di una battuta d’arresto”: la sinistra, dopo aver governato per anni quasi ovunque, ha subito cocenti sconfitte nelle recenti consultazioni elettorali, e le prossime non si preannunciano favorevoli. Non riassumo l’articolo, che vi consiglio di leggere con attenzione: quello che racconta di là dice molto anche a noi di qua…

Mi soffermo solo su quanto dice “una giovane donna di un quartiere popolare di Caracas [che] incarna la categoria di popolazione che ha maggiormente beneficiato delle ambiziose politiche redistributive del governo. ‘Vivevo nella miseria. Ne sono uscita grazie a Chàvez’, conferma la donna. per poi continuare, come se fosse una cosa evidente: ‘Adesso che non sono più povera voto per l’opposizione’”. Il suo evidente desiderio di conservare e possibilmente consolidare lo status di benessere raggiunto, condiviso da molti/e, farà verosimilmente ripiombare nella povertà e nella miseria lei e masse di popolazione che ne stanno uscendo…

Sembra una maledizione senza scampo, un “processo circolare” senza via d’uscita: “1/ ‘La destra distrugge le classi medie’; 2/ ‘Le classi medie impoverite votano a favore di un governo popolare’; 3/ ‘Una volta eletto, questo governo migliora il livello di vita delle classi medie’; 4/ ‘Le classi medie immaginano di far parte dell’oligarchia e votano a destra’. Ritorno alla casella di partenza”. Quanta gente, anche nel nostro smemorato e superficiale Occidente, continua a eleggere i ricconi, sperando di beneficiare di qualche loro briciola…

Io penso che un’alternativa ci sia, fondata su un altro punto di vista, su una pratica di vita consapevolmente costruita sul messaggio evangelico contenuto nella parabola della cruna dell’ago, attraverso cui può passare un cammello più facilmente che un ricco entrare nel regno dei cieli – che non è il paradiso dell’aldilà, ma il regno dell’amore e dell’armonia nell’aldiqua. La pratica contagiosa della sobrietà è quella che può garantire a ogni persona la soddisfazione dei suoi bisogni fondamentali e una vita dignitosa e serena, grazie all’accesso equo alle risorse e ai servizi. E’ o non è anche questo l’invito evangelico a cui noi delle CdB, ciascuno e ciascuna a partire da sé, ci sentiamo chiamati/e a corrispondere? Con la fiducia nella contagiosità dell’amore che riusciamo a incarnare.

Forse non era del tutto campato in aria, allora, quello che avevo detto quel giorno in Via Ostiense: anche nello studio della Bibbia ci si aprono orizzonti nuovi. Prendo spunto dalle citazioni di Marcello Vigli dal Vangelo di Giovanni, riportate nel commento che fa alla riflessione di Fausto Tortora (v. sul sito cdbitalia.it del 8.1.16): “Forse sarebbe meglio prendere sul serio la risposta di Gesù a chi gli chiedeva di mostrare il volto di Dio: chi vede me vede il Padre (Giov 14,9) e credere veramente nella sua solenne dichiarazione: Io e il Padre siamo uno (Giov 3,35)”. Io penso che questa “solenne dichiarazione” non sia pensiero e parola di Gesù, ma sia da attribuire all’elaborazione teologica di Giovanni, di Paolo… diventata presto dogma della divinità di Gesù. Mentre Gesù era solo un uomo e, come lui, ciascuno e ciascuna di noi può comprendersi in questa solenne consapevolezza: vedere il divino in ogni persona; ogni persona è “uno con Dio” e, quindi, tutti e tutte insieme – l’umanità è una cosa sola con Dio, insieme a tutto il creato (fatichiamo ancora molto a fare un passo indietro dall’antropocentrismo).

E’ un altro punto di vista, chiaramente, ma mi sembra un bel terreno di ricerca per noi delle CdB, capaci di prendere sul serio l’invito di Fausto Tortora a “sottoporre le nostre azioni… e anche le nostre idee… al vaglio analitico di una critica severa e ricorrente. In assenza di questa attenzione il rischio è cadere preda di luoghi comuni, assenza di creatività, gesti abitudinari e privi di reale significato. A questa dinamica non sfuggono, oltreché le persone, nessuna realtà collettiva, nessuna formazione sociale, a prescindere dalle modalità in cui si organizza e vive”. E’ proprio quello che penso anch’io. In buona compagnia, mi sembra.

Proposta

Le donne dell’arcipelago femminista chiedono sempre alle donne che vengono elette, dai consigli comunali al parlamento, di restare in relazione con le donne dei territori che le hanno elette, per praticare politiche coerenti e resistere al pericolo dell’omologazione alle collaudate pratiche politiche di stampo patriarcale. Molte donne delle nostre CdB, con altre, da decenni sono in relazione tra loro, si riuniscono, ricercano, pregano… tra loro: credo che sia ora di affidare a loro l’animazione delle nostre comunità, affinché la forma e i contenuti delle loro pratiche ci contagino tutti e tutte, per un rinnovamento possibile a partire da un altro punto di vista. Se davvero, come credo, la differenza tra uomini e donne è “irriducibile”, credo che sia ora che sperimentiamo l’“altro da noi”, dal pensiero maschile che finora ha guidato il mondo (verso il baratro). Come possiamo chiederlo al resto della società, quando è chiamata alle urne, se non cominciamo a praticarlo dove ci è possibile, a partire da noi? Il pensiero maschile non è l’unico praticabile.

Provo a dirlo con altre parole. Il mondo “biofilo” intuito da Mary Daly – e descritto nel libro Quintessenza (ed. Venexia) – non è solo per le donne, ma anche per gli uomini che scelgono di fare un “salto quantico” abbandonando il mondo necrofilo del patriarcato; ma sono le donne che l’hanno creato, a partire da sé, dal proprio desiderio “infinito”; sono loro la guida, l’invito, il motore del mondo nuovo, di quell’altro mondo possibile che noi uomini non sappiamo costruire.

Non sto proponendo di sostituire d’ufficio gli uomini, che hanno compiti di animazione e di coordinamento, con donne (non sprecate tempo con queste battute, per favore…). Sto proponendo di avviare un confronto tra di noi su quanto le “madri simboliche” del pensiero femminista ci invitano a praticare.

Penso che le CdB siano luogo “ideale” per queste sperimentazioni, liberi/e come siamo da condizionamenti esterni: il confronto e la condivisione ci possono aiutare a superare anche i condizionamenti interni, personali e reciproci, che potremmo scoprire persistenti. Ponendoci davvero in ascolto di quanto le donne, l’altro irriducibile da noi, hanno da dirci e da offrirci.

Beppe Pavan

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Unioni civili – Comunità Cristiane di Base: i cattolici che dicono no al Family day

Redazione
www.lindro.it, 27 gennaio 2016

Sostenere che “i cattolici” siano contro la legge sulle unioni civili è “infondato e illegittimo”. Ad affermarlo, in un comunicato di qualche giorno fa, sono le Comunità Cristiane di Base. Quei cattolici che sabato 30 gennaio non saranno in piazza per il Family Day. “Il Premier è un cattolico, come più di un Ministro, e molti e molte della compagine governativa e dello stesso PD che propongono e sostengono la proposta di legge”, dice, con un sorriso, Massimiliano Tosato, responsabile del coordinamento nazionale delle Comunità. Altro errore, dunque, è dare per scontato che i “cattolici” siano “un’entità compatta e omogenea, ignara del pluralismo”.

La legge Cirinnà, “pur con evidenti limiti giuridici e la perfettibilità di ogni legge, è comunque un passo avanti nella direzione del completamento di una corretta legislazione sui diritti civili”. Per tanto, per i cattolici ‘critici’ -così si definiscono gli aderenti alle Comunità Cristiane di Base-, avanti con la Cirinnà. “Sul piano etico e morale alcuni elementi possono non essere totalmente condivisibili, ma questo non inficia la necessità e la validità di una legislazione che ribadisca il diritto di tutti e di ciascuno, indipendentemente dai diversi fattori che di volta in volta vengono messi in campo per contrastare un percorso di civiltà, di essere ‘eguale’”, precisa il coordinatore.

Alla base del loro via libera c’è una motivazione di natura teologica – “nulla in questa legge contraddice il messaggio biblico” – e una motivazione relativa al rapporto politica-religione -“le Comunità Cristiane di Base hanno da sempre affermato la netta distinzione tra coscienza personale e sfera politica”, dice Tosato.

La motivazione teologica, spiega Franco Barbero -ex presbitero, dimesso dallo stato clericale-, è insita in quello che è la Bibbia: “la Bibbia non è un prontuario di risposte pronte all’uso”. La Bibbia “non fornisce risposte concrete rispetto alle modalità storiche in cui si coniuga l’esperienza famigliare, ma ritiene valida ogni relazione che contiene ed esprime amore, diritti e doveri. E’ ingenuo, fuorviante e culturalmente insostenibile la pretesa di ricavare dalla Bibbia le precise risposte ai problemi di oggi. Alla Bibbia vanno poste le domande giuste per non sottrarci alla nostra responsabilità di incarnare nel nostro tempo il messaggio dell’amore nei mutevoli contesti storici”. “Chi cerca nella Bibbia il ‘codice etico, universale, immutabile’, ha imboccato la strada del fondamentalismo”.

Il nodo della questione che sabato farà scendere in piazza i cattolici del Family Day sono i bambini, la Stepchild adoption, le adozioni da parte di omosessuali? “A mio avviso, i bambini vengono usati come pretesto e come terrorismo morale. In realtà i bambini abbandonati e abusati non sono mai stati il centro dell’interesse e dell’intervento della gerarchia che, semmai, è stato molto premurosa nell’annetterli alla propria istituzione e di catechizzarli. Le eccezioni confermano la regola. Si pensi quanta opposizione l’istituzione cattolica ha dimostrato contro l’educazione affettiva, sentimentale e sessuale nelle scuole. Il nodo è l’omosessualità, perché mette in crisi il modello unico patriarcale che la gerarchia non ha mai superato. Tale modello è estremamente funzionale al mantenimento di un potere che si traveste da Dio. Poi, siccome dentro l’istituzione la presenza di prelati e sacerdoti omosessuali è tanto alta quanto nascosta, è chiaro che su questo vissuto umano la gerarchia può solo reagire negando, nascondendo, chiudendo gli occhi davanti alla realtà”.

«Per la Chiesa non può esserci confusione tra la famiglia voluta da Dio e ogni altro tipo di unione», ha affermato Papa Francesco in occasione dell’inaugurazione dell’anno giudiziario del tribunale della Rota Romana, il 22 gennaio scorso. E proprio il concetto di ‘famiglia’ è quello che fa la differenza in questa vicenda. “La famiglia che la gerarchia cattolica difende come fondata sulle Scritture è frutto di una manipolazione dei testi biblici”, afferma Barbero, “come tutte le scienze dell’interpretazione ormai hanno dimostrato. Inoltre tale ‘esclusivismo’, tale modello unico nega la realtà storica nel suo dispiegarsi in modalità plurali e in continua evoluzione. E’ ovvio che un modello unico è più facilmente controllabile”.

I due Testamenti biblici (il Vecchio e il Nuovo Testamento), “non conoscono un modello di famiglia secondo l’attuale dottrina cattolica. I racconti delle origini che troviamo in Genesi 1 e 2 sono mitologici e non intendono affatto codificare un modello. Fare di un mito o di un particolare inveramento storico un modello dogmaticamente assunto, significa precipitare nel fondamentalismo e, addirittura, nel ridicolo. Abramo ebbe 3 mogli, Giacobbe 2, Davide 8, Salomone 700….Evidentemente il Primo Testamento non voleva promuovere la poligamia. Così, nel Secondo Testamento la famiglia uomo-donna conosce, come in Paolo e in Matteo, la possibilità di essere sciolta. Così è innegabile che spesso facevano parte della famiglia i servi e gli schiavi. E se la gerarchia cattolica volesse proclamare come modello naturale ed immutabile la realtà tragica di lunghi secoli, dovrebbe ammettere di aver propagandato e difeso una famiglia tutt’altro che esemplare: la donna era assolutamente sottoposta al marito e lo scopo primario del matrimonio cristiano convergeva nella procreazione. Questo durò fino al Concilio Vaticano II”, spartiacque per i cattolici ‘critici’. E qui si arriva alla motivazione politica del sì alla legge Cirinnà.

Dopo il Vaticano II, afferma Marcello Vigli, tra i pensatori delle CdB, “l’appellativo ‘cattolico’ ha perso definitivamente quella valenza di categoria che, pur senza essere esaustiva, aveva a lungo indicato l’orientamento politico e il comportamento elettorale della massa dei fedeli”. Già ai tempi del referendum sul divorzio lo aveva rivelato la costituzione di un Comitato dei Cattolici per il NO all’abrogazione della legge -guidato da Gabrio Lombardi, e con dentro cattolici come Giorgio La Pira-, Comitato che fu determinante per la sconfitta di quanti, cattolici e non, volevano l’abrogazione della legge. “La nostra presenza nel dibattito sui ‘diritti civili’, a partire dalla legge sul divorzio, ci ha portato a testimoniare come credenti, che il rispetto e la dignità umana di ciascuno non può essere limitato o censurato da qualsivoglia legge, tantomeno in nome del Vangelo”.

I cattolici in politica ‘difformi’ “rispetto alla gerarchia ecclesiastica (non alla Chiesa intesa come insieme dei credenti) sono sempre stati presenti, e in maniera significativa (anche quando sottovalutati in quanto cattolici) in più compagini partitiche (compresa la DC) fin dalla nascita della nostra democrazia”, afferma Tosato. Il “disaccordo sui temi etici, sui diritti civili e sulla laicità delle Stato, rispetto ad una visione confessionale della politica (non solo quella della Democrazia Cristiana) è stato sempre presente e costante nel mondo cattolico a partire da De Gasperi”. Il ‘Date a Cesare quel che è di Cesare…’ è il detto evangelico che afferma la netta separazione che ogni cristiano deve aver presente nel suo vivere da cittadino. “La sfera spirituale (quel che appartiene a Dio) e privata non può ‘distruggere’ la sfera politica e mondana di Cesare”, dice Tosato.

L’appellativo ‘cattolico’, prosegue Vigli, “ha continuato, però, ad essere usato per indicare gli elettori attenti alle scelte politiche della Conferenza episcopale (Cei) dopo che ad essa Papa Wojtyla aveva riservato la ‘presenza’ politica della Chiesa in Italia. Hanno continuato a rivendicarlo Comunione e Liberazione e l’Opus Dei oltre ai settori delle comunità religiose indisponibili ad accettare il radicale mutamento, emerso dal Concilio Vaticano II, che vuole la Chiesa Popolo di Dio e non più Società perfetta. Esso in verità impone un diverso rapporto con la società civile e con gli Stati”.

Al mantenimento del valore ‘politico’ del termine, continua ancora Vigli, “sono restati fedeli sia quanti nella gerarchia cattolica ne avevano fatto e continuano a farne il fondamento del loro essere soggetto politico autorevole interlocutore dei poteri forti della politica italiana, sia quelli che traggono vantaggio dal suo sostegno pagato solo con il riconoscimento della sua autorità sulle questioni soggette a valutazioni morali, del resto già garantita dal regime concordatario. Non si tratta di incapacità dei cattolici italiani di proteggere la sfera politica, legislativa, da quella religiosa, ma di una scelta ben consapevole”.

Nel tempo, dice Vigli, “l’autorevolezza della Cei è venuta diminuendo così che, ad esempio, oggi mira a limitare i danni di un processo che inevitabilmente porterà alla legalizzazione delle coppie di omosessuali cercando di evitare, almeno, che ne derivi «confusione tra la famiglia voluta da Dio e ogni altro tipo di unione». Questo è il limite posto da Papa Bergoglio nel suo ultimo intervento in cui, al tempo stesso, riconosce che «La famiglia, fondata sul matrimonio indissolubile, unitivo e procreativo, appartiene al ‘sogno’ di Dio e della sua Chiesa per la salvezza dell’umanità». E’ noto che i sogni non sono destinati a realizzarsi! Anche il cardinale Bagnasco Presidente della Cei lo sa e, perciò, rinunciando ad opporsi alla legalizzazione delle coppie omosessuali, si limita a dichiarare contro natura, in sintonia con atei e agnostici insensibili alla maturazione della società, il diritto di imporre a nati da una donna due madri o … due padri. In Parlamento, quindi, i resti della democrazia cristiana, confluiti in quanto ‘cattolici’ nel Partito democratico, sono autorizzati a non opporsi alla legge, ma, al tempo stesso, e con forza, sollecitati ad impedire la ratifica del diritto all’adozione dei figli del partner e, ancor più, all’uso dell’utero in affitto”.

Secondo i sondaggi condotti da IPR Marketing, il riconoscimento delle unioni civili eterosessuali vede il 74% di cittadini favorevoli, le unioni tra cittadini dello stesso sesso raccolgono il 46% dei sì (i no totalizzano il 40%); il ‘matrimonio’ omosessuale raccoglie il 38% di sì; i favorevoli alle adozioni per una coppia eterosessuale sono il 50%; mentre sono favorevoli all’adozione da parte di una copia omosessuale solo il 15% degli intervistati.

In primo luogo, sottolinea Tosato, si è creata, più o meno volutamente, confusione, “confondono e accumunano indifferentemente problematiche molto diverse quali le unioni, le adozioni, affidi, ecc …, segno della ignoranza (in buona fede?) del testo di legge in discussione”. In secondo luogo: “la distanza effettiva tra la pratica del popolo dei credenti su temi etici e sessuali e sui diritti civili in genere, rispetto a quella propugnata dalla CEI (in particolare quella ruiniana partner privilegiato della politica berlusconiana) è abbondantemente certificata da studi sociologici rilevazioni statistiche ormai da anni”. “Probabilmente i cattolici ‘complessivamente intesi’ (battezzati o di chi per convenzione si professa tale) favorevoli alle unioni civili sono tuttora una minoranza” come si ricava dal sondaggio. “Ma non certamente insignificante; anzi, una minoranza attiva. E se la CEI e il Family Day hanno dovuto ricompattarsi dopo anni di silenzio (avendo perso la rendita di posizione accumulata nel ventennio ruinian-berlusconiano) forse è anche merito di questa minoranza non certo silenziosa”.

Il mondo cattolico è in forte evoluzione, “ma tra forti contraddizioni -che l’attuale Papa contribuisce ad alimentare con ‘una pastorale popolare’ cui, però, fa da contraltare un conservatorismo non certo sopito)”, sostiene Tosato. I cattolici del Family Day “non credo siano necessariamente solo i più culturalmente ‘ignoranti’ o tradizionalisti che si rifanno ad una visione della Chiesa e della fede preconciliare che (in barba al Vaticano II) ha prosperato sotto i papati di Giovanni Paolo II e Benedetto XVI. Molti sono socialmente attivi e ‘progressisti’ in vari ambiti quali quelli ambientali, della pace, dei diritti umani, lotta contro la prostituzione, contrasto alla mafia, alle guerre e alle armi…, e anche -in parte- dei diritti civili, e spesso in prima linea rispetto al sostegno ai poveri e agli ultimi, ma comunque ‘obbedienti’ alla gerarchia”. Cattolici magari ‘progressisti’, “salvo che per le questioni di genere e sulla sacralità della famiglia. Spesso sono membri di meritorie associazioni che, però, essendo legate a doppio filo alla gerarchia per ragioni economiche (8 per mille) sono ‘distratte’ rispetto ad alcune tematiche sensibili, specie quelle legate ai principi non negoziabili dell’ancor presente cardinal Ruini”.

E’ tragico, conclude Vigli, “mentre il messaggio biblico propone e fa centro sull’amore, la gerarchia si occupa di difendere un modello. Ribadire come principio che la gerarchia sa qual è ‘la famiglia voluta da Dio’, è di per sé un assunto teologico blasfemo e storicamente confutabile. Quando si allarga la tenda dell’amore, quando le relazioni producono nuovi spazi di amore, un cristiano non può che fremere di gioia perché il sogno del Dio che accompagna le Sue creature verso la pienezza, trova nuove modalità espressive”.

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Le aggressioni contro le donne a Colonia, in Germania

Ida Dominijanni

Un branco di maschi è un branco di maschi. A qualunque latitudine e di qualunque colore (anzi: “colore presunto”) essi siano. Con rara onestà intellettuale e morale, l’ha ricordato ieri su Repubblica Gabriele Romagnoli, a partire dalla sua propria esperienza di studente universitario bolognese, nonché di “maschio sessualmente arretrato”, che quarant’anni fa partecipava, o assisteva, ai riti goliardici di carnevale che ogni anno contemplavano caccia, molestie e palpeggiamento delle ragazze. E lo si potrebbe ricordare con svariati altri esempi presi dal mondo occidentale, bianco e libero, dove stupri di gruppo, molestie di varia natura, femminicidi di varia efferatezza non smettono di accadere. Oppure con altri esempi tratti dal circuito militare, occidentale e orientale, settentrionale e meridionale, dato che sempre nelle guerre, e in qualunque guerra, le donne continuano a essere la preda succulenta che gli eserciti di maschi si contendono, o il marchio etnico che cercano di conquistare, o la presunta altrui proprietà che cercano di rapinare.

Lo si ricorda per sminuire i fatti di Colonia, Francoforte, Amburgo, Düsseldorf e Stoccarda? No. I fatti della notte di capodanno non vanno sminuiti: sono fatti brutti, e, se fossero come si sospetta l’effetto di un’azione coordinata di bande di maschi “nordafricani” – ma attenzione, basta interpellare delle amiche che abitano in quelle città per sapere che la notte di capodanno l’aria che tira è sempre la stessa –, sono fatti inquietanti. Segnalano che la provocazione dei maschi islamici contro i maschi occidentali tramite l’aggressione delle “loro” donne entra ufficialmente, dichiaratamente, a far parte delle tattiche della guerra civile globale in corso. E questa è certamente una pessima notizia, che non va derubricata.

Ma che non va nemmeno distorta, o piegata ad altri fini, l’altro fine essendo il titillamento dell’ideologia dello “scontro di civiltà” cui si presta egregiamente: che è precisamente quello che gli islamisti radicali cercano di fomentare e dovrebbe essere precisamente la trappola in cui evitare di cadere. Intendiamoci, c’è pochissimo di nuovo sotto il sole. È dall’indomani dell’11 settembre americano che tutto l’occidente suona la grancassa dell’oppressione femminile come marchio d’inferiorità della cultura islamica, e della liberazione delle donne dal patriarcato islamico come legittimazione per le guerre occidentali di “democratizzazione” del Medio Oriente. Non per caso, questa grancassa suona soprattutto nel fronte conservatore americano ed europeo, che è tanto pronto a difendere la libertà femminile delle donne contro l’aggressione degli “altri” maschi quanto è pronto a tacitarla, all’occorrenza, in casa propria: che dire dell’allarme per i fatti di Colonia di un commentatore come Sallusti, che ai tempi del Berlusconi-gate non aveva mezzo dubbio sulla libertà maschile di comprarsi il corpo femminile? Oppure che dire delle certezze del Corriere della Sera, che dagli attentati di Parigi porta avanti una strenua battaglia a difesa dello “stile di vita” occidentale assimilando la libertà femminile alla libertà di andare a teatro o a prendersi un aperitivo al bar? Difese sospette, cui consegue sempre l’ingiunzione alla sinistra, o a ciò che ne resta, a non sacrificare i diritti delle donne alla bandiera del multiculturalismo.

Ma qui non è questione di multiculturalismo, se per multiculturalismo si intende il rovescio dello scontro di civiltà, ovvero l’accettazione acritica di una cultura diversa dalla propria e la giustificazione delle sue gerarchie e sopraffazioni interne, a partire dalla gerarchia uomo/donna e dalla sopraffazione delle donne da parte degli uomini. I branchi di maschi che assalgono donne non sono giustificabili in nome di niente, né nella cultura islamica né nella cultura occidentale, né fra gli immigrati di Colonia né nei campus americani o nelle scuole “bianche” italiane. Assumere davvero lo stato dei rapporti fra i sessi e la libertà femminile come indici dello stato di una civiltà – o meglio, della crisi di civiltà in cui il mondo intero si trova – significa affrontare le contraddizioni comuni e trasversali alle civiltà che vengono rappresentate come contrapposte e in lotta fra loro. Significa combattere la brutalità del patriarcato islamico come i residui, o i rigurgiti, patriarcali nelle democrazie occidentali. E viceversa: significa anche e forse oggi soprattutto riconoscere i segni positivi di libertà femminile non solo nelle democrazie occidentali, ma anche nei paesi più patriarcali dei nostri. Solo pochi giorni fa Shirin Neshat, un’artista che in materia di rapporti tra i sessi nel mondo islamico non ha uguali e non teme confronti, in un’intervista sul Manifesto interpretava l’efferatezza contro le donne nel radicalismo islamico come il segno non tanto di una permanente oppressione femminile, quanto di una inquietante arretratezza e reattività della cultura politica di fronte a una libertà femminile sempre più diffusa.

È una sindrome che in occidente conosciamo bene: il patriarcato diventa più aggressivo proprio quando scricchiola. Se cominciassimo a leggere il disordine mondiale nei termini di una crisi planetaria del patriarcato, e non nei termini autorassicuranti di un Eden occidentale della libertà femminile in guerra contro l’inferno patriarcale islamico, probabilmente cominceremmo finalmente a fare un po’ d’ordine, a capodanno e tutti i giorni.

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Quando i soldi sono il legame simbolico

Alessandra Bocchetti
http://27esimaora.corriere.it

C’è voluto un po’ di tempo per fare sedimentare tutto quello che ho letto sull’utero in affitto. È durata un mese o forse più la pioggia incessante di dichiarazioni, articoli, confessioni, condanne. Lo so che l’espressione “utero in affitto” non fa piacere ad alcune compagne e amiche, ma proprio di questo si tratta e penso che ogni alternativa a questa espressione, magari meno brutale, ci allontani dalla verità

Di tutto questo materiale non riesco a dimenticare un articolo apparso su La27ora/Corriere che raccontava la perfetta efficienza per trovare uteri disponibili di una clinica californiana. Una rapida indagine sulle ragioni della scelta, più routinaria che necessaria, seguita dall’ascolto dei desiderata ed ecco subito l’utero buono saltava fuori da un fornitissimo database. Poi il contratto. Si sa che il contratto, come strumento giuridico, testimonia reciproco consenso e con questo legittima, autorizza l’oggetto, senza la necessità di giustificazioni o la pretesa di raccontare storie ma spesso, soprattutto quando si parla di corpi umani, il contratto è sempre brutale, spesso è la legalizzazione di un sopruso, il suo alibi.

Sono inciampata su due punti del contratto della clinica californiana. Il primo è che la donna o l’uomo che richiedeva quella determinata prestazione poteva cambiare idea e poteva quindi decidere di fare abortire la donna che stava “lavorando” per lei/per lui. Il secondo è che nella scelta del soggetto disponibile la statistica diceva che erano di molto preferite le lesbiche, perché… il tutto risulta più pulito, nessuno sperma di “chi sa chi” può imbrattare, nessun cazzo può colpire ma neanche sfiorare il nostro bambino che sta crescendo. Tutto questo in cambio di denaro, molto denaro. Se da una parte il denaro serve a chi non ne ha e questa potrebbe essere una giustificazione – ho sentito tante donne sostenere questo – dall’altra parte il denaro autorizza, tranquillizza, ti colloca in luogo certo e, nel profondo della coscienza, ti garantisce il perdono. Sì, questo mi ha fatto proprio orrore.

Per farla breve dico subito qual è la mia posizione in proposito. Se la scienza è riuscita a superare i limiti di un corpo umano, creando la possibilità di nuove relazioni, nuove dimensioni, non sarò certo io a dire di no. Il mio no non varrebbe nulla, avrebbe solo l’arroganza di un gesto impotente. Vorrei ragionare, sì, sulle condizioni.

Penso che sia bellissimo che una sorella, un’amica cara, una madre, possa farmi il grande dono di portare, nutrire e far crescere dentro di sé una creatura che sarà mia, se mi trovassi nella triste condizione di non poterlo fare. Il bambino che nascerà riceverà un racconto di generosità che lo impegnerà alla gratitudine, il sentimento più civilizzatore che ci sia. Chi l’avrà messo al mondo resterà sotto i suoi occhi, non sparirà. Parole, gesti, sguardi, intrecci. In questo caso l’utero prestato sarà un esperienza di bene puro, quello vero, quello disinteressato, che farà crescere tutti coloro che ne sono coinvolti. Non servirebbe contratto, solo un regolamento condiviso, chiaro e più semplice possibile. Ecco, tutto questo vorrei che fosse possibile e legale.

Da tutto questo resta tassativamente fuori il denaro, resta fuori il mercato del migliore offerente, il mercato delle carni più sode. Il mercato delle “fattrici”.

Per l’utero in affitto ho soprattutto sentito dire «è giusto», «è ingiusto» e sembra che tutti abbiano buone ragioni da difendere. Io non voglio parlare in termini di giustizia. Voglio invece immaginare come potrebbe diventare il paese in cui vivo se venisse legalizzato il mercato dell’utero in affitto. Sensali che battono le campagne alla ricerca di donne povere, e questo sarà soprattutto al sud, come una volta cercavano le balie da latte, giovani contadine che appena partorito erano costrette a lasciare il proprio bambino per andare a nutrirne un altro, figlio di signori. Dovevano avere un aspetto sano, forte, senza denti cariati o altre malattie accertate. Il sensale questo doveva garantire. E c’era un contratto ferreo tra le parti, che garantiva alla balia uno stipendio, tanti metri di stoffa ogni anno, che andavano a vestire i bambini restati a casa, e un pezzo d’oro o di corallo. Interessante sarebbe studiare questi contratti, ma forse qualcuna l’ha già fatto.

Ma adesso con l’utero in affitto non si chiede solo latte, si chiede molto di più, si chiedono nove mesi di vita e l’occupazione di un corpo umano, un corpo che non potrà immaginare nulla sul bambino che ospita, come in una normale gravidanza, perché il bambino che sente muovere non sarà suo e quindi dovrà pensare ad altro, ai cavoli suoi, o non penserà, se pensare risultasse troppo doloroso.

Il mercato si organizzerebbe subito, non chiede altro. Il mercato è un lupo dinamico e pieno di immaginazione. Ci saranno delle “case di attesa” per garantire l’ “acquirente” sulle condizioni igieniche necessarie e un nutrimento corretto delle donne fattrici? Case a 5 stelle, a 4, a 3, a 2. In campagna, in città, al mare. I prezzi varieranno. Con i soldi si può fare quasi tutto.

Ci saranno delle visite mediche preventive molto serie, anamnesi severe per diventare fattrici? Ci saranno fattrici di serie A, di serie B, di serie C. Per chi fornirà anche l’ovulo ci saranno parametri in più: le bionde, le brune, le alte, le bassette, le magre, le grassette, le coscia lunga, “come sono i piedi? come sono le mani?” ma tutte dovranno essere sane e belle, sì: belle. Beh, sul fatto di dover essere belle, non ci si dovrebbe scandalizzare più di tanto, perché la cultura a cui apparteniamo, attraverso mille e mille segnali a partire dalla nascita, ci ha fornito di una sorta di eugenetica interiore con cui ogni donna, o quasi, ha a che fare quotidianamente.

Ma adesso voglio dire la cosa che più mi sta a cuore, la vera ragione per cui sto scrivendo, e che non ho sentito dire da nessuno. Le possibilità che la scienza oggi offre sono a nostro favore, sono a favore delle donne. Se una giovane donna vuole far carriera congelerà i suoi ovuli dei vent’anni e deciderà poi, quando le converrà, di farne qualcosa di vivo, magari mai. Forse sarà l’azienda stessa ad offrirle questa opportunità, se la considerasse un elemento dinamico, efficiente, creativo, da non perdere. Forse non ci sarà più la necessità delle dimissioni in bianco perché il problema si risolverà così.

Noi vogliamo che le donne viaggino, studino, conoscano il mondo e le sue regole. Vogliamo che le donne governino, decidano. Per tutto questo oggi noi lasciamo i nostri bambini nelle mani di tate fidate; perché non potremmo lasciare anche i nostri bambini da far nascere nella pancia di una donna fidata? Avremo molto più tempo, potremo fare molte più cose. Saremo molto più libere.

Libere? Eccoci al punto. La libertà di cui stiamo parlando è la libertà di cui hanno goduto gli uomini da sempre. Senza bambini, senza panni caldi, senza nausee, senza latte, senza mestruazioni, il corpo maschile ha rappresentato la perfezione per secoli e secoli. È questa libertà che vogliamo? Ci deve essere ben chiaro quello che sta succedendo: si sta appannando il fronte della differenza con gli uomini e si sta rafforzando come non mai il fronte della differenza tra donne ricche e donne povere. Questo è il mondo in cui ci piace vivere? È questo quello che vogliamo?

Ce lo dobbiamo proprio chiedere, a questo punto, perché questa faccenda è solo nelle nostre mani. Dipenderà da noi. Gli uomini c’entrano poco e niente, potranno dare un parere, un giudizio, una minaccia, una condanna, ma il corpo delle donne è delle donne, soprattutto oggi, e sono le donne che faranno o non faranno, che sceglieranno o rifiuteranno.

Perché soprattutto oggi? Le donne sono soggetti centrali della società, non esiste società senza donne, sono sempre state centrali, da che mondo è mondo, ma ora sono libere come non lo erano fino a poco tempo fa. Ora sono centrali e libere. È questa la grande novità. Che scherzo! noi donne, che fino ieri non sapevamo che fosse la libertà, che fino a ieri la nostra parola non valeva neanche per una testimonianza… Tocca a noi decidere se continuare a cadere nella libertà degli uomini o pensare che forse è ora possibile governare con un’altra idea di libertà, la libertà come la pensano le donne.

Come pensano le donne la libertà? Come amano vivere? Cosa è per loro una buona vita? Su questo dovremo chiamarci a lavorare e dirci le cose più chiaramente. Vogliamo ancora schiavi e padroni? Vogliamo che sia il denaro il medium universale? Vogliamo che sia il potere a fare ordine nel mondo? Vogliamo che sia la forza la ragione di ogni vittoria? Dovremo rispondere a queste domande. Ma queste risposte non le potremo trovare che nella nostra storia e non nella sua cancellazione.

Spesso mi chiedono cosa è una donna: rispondo sempre che non lo so. Non so cosa sia una donna, ma so perfettamente che ne ha fatto la storia: un soggetto fortissimo, che ne ha passate tante e che sta ancora in piedi. Io continuo a investirci le mie speranze, ma forse, chissà, il mercato riuscirà là dove gli uomini della storia non sono riusciti e si mangerà anche loro.

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L’invenzione della famiglia tradizionale

Bia Sarasini
il manifesto, 30 gennaio 2016

Dici famiglia e sembra tutto chiaro, e non solo ai pasdaran del family day che si ritrovano oggi a Roma. Padre, madre, figli. Un nucleo che condivide la stessa abitazione, di solito senza convivere con altre persone. E sembra chiaro che a questo pensa la Chiesa, quando parla di famiglia e di natura. Questa specie di indistinto senso comune è la zona grigia in cui tutto si confonde, e in cui sguazzano “Sentinelle”, ultrà leghisti e fondamentalisti vari. Perfino chi critica non avere in mente altro che la coppietta felice.

È questo, il modello naturale a cui si fa riferimento? È la famiglia mononucleare l’esempio? Famiglia è una parola di origine latina, e, dicono i vocabolari, indicava l’insieme dei servi che abitavano in una casa, e non alludeva a nessun legame di parentela. Anche matrimonio ha cambiato significato nel corso del tempo, spiega Emile Benveniste (Il vocabolario delle istituzioni indo europee, Einaudi).

Nelle lingue indoeuropee non esiste un’unica parola che indichi quello oggi si intende per matrimonio, ma esistono parole diverse, per gli uomini e le donne. In particolare matrimonium significava esclusivamente il diventare sposa della donna, c’è voluto del tempo perché nelle lingue romanze assumesse il significato di «unione legale tra uomo e donna».

La ricerca delle etimologie, delle fonti, è molto utile quando una parola, un concetto, una formazione sociale sono sottoposte a tensione sociale, sono al centro di un conflitto. Come è oggi per famiglia e matrimonio. Uno scontro che non ha nulla a che fare con la natura, che viene impugnata come una clava, come se anche della natura ci fosse un’unica idea.

Come se non fosse necessario chiedersi a quale natura si fa riferimento quando la si invoca come fonte di una norma sociale – e legale – da imporre a tutti. Si intende l’istinto che spinge all’accoppiamento, per usare un linguaggio ottocentesco? O gli ormoni, per attestarsi sul biologismo diffuso dei nostri tempi? E se per stabilire di quale natura stiamo parlando occorre accordarsi, trovare un linguaggio comune, questo non comporta che ci riferiamo in ogni caso a qualcosa che gli umani significano? Che è l’interpretazione umana a dare senso a quei fatti, a collocarli in un ordine? C’è una vignetta divertente, che circola nel web.

«Ogni volta che si dice ’natura’, un antropologo muore».

Certo, gli antropologi non sono popolari come gli archeologi (dopo l’effetto Indiana Jones), ma si dovrebbe insegnare nelle scuole che la famiglia non si è sempre chiamata così, e soprattutto ha cambiato forma innumerevoli volte nel corso del tempo. E che in particolare la famiglia mononucleare è una forma molto recente, legata all’industrializzazione e connessa urbanizzazione. Una della forme meno equilibrate, visto l’isolamento in cui lascia i suoi membri, tagliati fuori anche dai più stretti legami parentali. E per questo fonte di ansia e di angoscia, accanto ai motivi molto materiali, di sopravvivenza.

Si vive peggio da soli, e per questo si creano oggi nuove famiglie, nuove convivenze – in grandi case per esempio – per mettere in comune vite, servizi, accudimenti, cure. Del resto questo è stato anche uno degli argomenti del Sinodo 2015 dedicato alla famiglia, nel corso del quale si è preso atto che oggi nel mondo famiglia e matrimonio hanno forme diverse. E che le difficoltà vengono soprattutto dalle faticose condizioni di vita, dalla mancanza di lavoro, dalla necessità di migrare. Per questo è curioso che il cardinale Bagnasco abbia detto qualche giorno fa: «La famiglia è un fatto antropologico, non ideologico» per affermare il diritto dei bambini ad avere un padre e una madre. Cosa significa antropologico, in questo contesto?

Del resto, non occorre essere essere esegeti particolarmente rifiniti per comprendere che Gesù nei Vangeli butta all’aria i ruoli definiti, anche quelli parentali. La sua chiamata divide, se necessario: «Sono venuto infatti a separare il figlio dal padre, la figlia dalla madre» (Matteo 10, 34) e tutto quello che segue. Viene insegnato che non deve essere preso alla lettera, che il testo ha una valore simbolico. Eppure il messaggio è chiaro, esprime una critica netta, per i legami troppo stretti, che guardano solo se stessi.

Del resto, la famiglia del tempo di Gesù, farebbe inorridire ora, certo assomiglierebbe ben di più alle tribù islamiche che minaccerebbero oggi l’Occidente cristiano che alle belle coppie che celebrano il matrimonio con sfarzo e wedding planner.

E le coppie omosessuali? In che senso ciò che spinge a unirsi persone dello stesso sesso è fuori dalla natura? È nell’antropologia, cioè nelle relazioni tra gli umani, la possibilità di dare senso. Il priore di Bose Enzo Bianchi anche di recente ha ricordato che degli omosessuali Gesù non dice nulla: «L’onestà» ha detto «quindi, ci obbliga ad ammettere l’enigma, a lasciare il quesito senza una risposta. Su questo, io vorrei una Chiesa che, non potendo pronunciarsi, preferisca tacere».

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Unioni civili. Valdesi, metodisti e luterani difendono i diritti di tutte le coppie

www.nev.it

Roma (NEV), 27 gennaio 2016 – Nell’imminenza del voto parlamentare sui diritti delle coppie di fatto e omosessuali, il pastore Eugenio Bernardini, moderatore della Tavola valdese, interviene nel dibattito. “Valdesi e metodisti difendono i diritti di tutte le coppie che si costituiscono in una relazione d’amore e di impegno reciproco. Non è compito di una chiesa dettare una legge o condizionare il legislatore nell’esercizio del suo mandato di rappresentanza degli elettori – afferma il moderatore Bernardini –. Ma una chiesa, così come ogni altra confessione religiosa, ha la possibilità di esprimere la propria idea e le proprie valutazioni su temi che la interrogano e la impegnano. E come valdesi e metodisti affermiamo con chiarezza che difendiamo i diritti di tutte le coppie che si costituiscono in una relazione d’amore e di impegno alla solidarietà reciproca. E ribadiamo, come facciamo da anni, che siamo pronti a benedire queste unioni nel nome di un Evangelo che è grazia e amore per tutte le creature di Dio”. Dal 2010 la Chiesa valdese (Unione delle chiese metodiste e valdesi) autorizza la benedizione delle coppie dello stesso sesso.

Anche la Chiesa evangelica luterana in Italia (CELI) aveva approvato, nel 2011, la benedizione di “unioni di vita non tradizionali” di persone etero e omosessuali sostenendo che “alla luce di molteplici pronunciamenti delle nostre Assemblee e dei nostri Sinodi, nonché della prassi locale, le nostre chiese si dichiarano aperte all’accoglienza di modelli di unione, anche tra persone dello stesso sesso, valorizzando il sentimento dell’amore, della libertà di scelta e l’impegno a una convivenza stabile. Si dichiarano pronte ad accompagnare con la preghiera quanti chiedono assistenza spirituale nel loro rapporto di coppia e nel loro cammino di fedeltà a Dio”. La presidente del Sinodo CELI Christiane Groeben, neoeletta vicepresidente FCEI, ricorda: “Uomini e donne sono alla continua ricerca di forme di relazione stabili e sostenibili. Il matrimonio rappresenta una forma centrale fra queste. Oltre al matrimonio esistono però altri modi di vivere la sessualità in maniera responsabile. Anche l’omosessualità è una delle espressioni della sessualità e gli omosessuali non inventano il loro orientamento ma lo trovano. E il compito della chiesa è quello di accompagnare le persone in tutti i modi di vivere, siano esse etero o omosessuali”.

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I diritti dei bambini e dei genitori

Chiara Saraceno
La Repubblica 8.12.2015

Le obiezioni al ricorso alla gestazione surrogata non devono essere utilizzate per ostacolare la possibilità di adottare da parte delle coppie dello stesso sesso. La disponibilità a fare da genitori ad un bambino è un bene prezioso che va riconosciuto e sostenuto. Risponde al “diritto alla famiglia” solennemente sancito dalla dichiarazione internazionale dei diritti del fanciullo, che ha per la prima volta riconosciuto, appunto, i minori come soggetti di diritti in proprio. Se esistono disponibilità e capacità generativa, ovvero a far posto, riconoscere e crescere un piccolo, non c’è obiezione, legata alla appartenenza di sesso, che tenga rispetto all’adozione, non solo del figlio/a del compagno, ma alla adozione tout court. Come nel caso delle coppie di sesso diverso, ciò che rileva è solo quella capacità e disponibilità.

Impedire l’adozione del figlio del compagno/a perché potrebbe avallare la gestazione surrogata, oltre a mettere insieme in un’unica categoria bambini adottati, orfani di un genitore o non riconosciuti da un genitore e nati per gestazione surrogata, equipara impropriamente le coppie lesbiche (che normalmente non ricorrono alla gestazione surrogata) a quelle gay. Soprattutto, nega di fatto il diritto dei bambini in queste coppie ad avere legalmente due genitori, anche quando questi sono disponibili. Una situazione analoga a quella, fino al 1975, dei figli nati fuori dal matrimonio da genitori non sposati tra loro ma con altri. In nome del principio dell’unità della famiglia (legittima), e del giudizio negativo sulla sessualità extraconiugale (specie di quella delle donne) questi figli non potevano essere riconosciuti dal padre, se era sposato con un’altra donna, né dalla madre, se era sposata e suo marito disconosceva il figlio non biologicamente suo. I diritti dei bambini venivano sacrificati sull’altare di “principi” e “valori”. Questa situazione è stata parzialmente sanata nel 1975, anche se si è dovuto aspettare il 2013 per equiparare definitivamente figli naturali e legittimi. Non abbiamo imparato proprio nulla da questa vicenda?

Rimane la questione della gestazione surrogata, che riguarda sia (soprattutto) le coppie di sesso diverso sia quelle dello stesso sesso, specie se maschili. Qui il dibattito è aperto e probabilmente rimarrà tale per molto tempo. Sono due le questioni in gioco. I bambini non sono merce e non possono, non dovrebbero poter essere comprati e venduti. Il corpo delle donne non è un contenitore, che non può, non dovrebbe poter essere affittato più o meno consensualmente per conto terzi, e la gravidanza non è un tempo vuoto, privo di conseguenze sulla psiche della donna e del bambino. Insieme, questi due elementi inducono a chiedere che sia vietata la gestazione surrogata a pagamento e da parte di donna che non ha alcun diritto e dovere rispetto al nascituro, una situazione purtroppo diffusa in alcuni Paesi dell’Est europeo, che si stanno specializzando nell’industria del “bambino chiavi in mano”, ed extra-europei, dove, soprattutto in India, si assiste a forme di sfruttamento e semi-schiavitù durante la gravidanza.

Ma esistono anche situazioni meno univocamente negative. Può succedere che una sorella, un’amica, si prestino per solidarietà e affetto a portare avanti una gravidanza per chi – donna – ne è altrimenti impossibilitata. Così come succede che coppie di sesso diverso o di uomini stabiliscano un’alleanza con una donna (o con due, nel caso di distinzione tra donatrice di ovulo e di gestazione) per “avere un figlio insieme”, senza quindi escludere nessuno, tanto meno la gestante, dalla esperienza relazionale e affettiva del bambino che nasce così. In alcuni Paesi in cui è legale la gestazione surrogata la gestante appare sempre legalmente come madre ed ha l’ultima parola, ovvero può decidere di tenere con sé il bambino. In una situazione di incertezza e di forme di regolazione difformi da Paese a Paese, con forti rischi di sfruttamento e di mercificazione, può essere opportuno vietare il ricorso alla gestazione surrogata, in Italia e all’estero, per coppie dello stesso sesso e di sesso diverso, senza che ciò rilevi per l’accesso all’adozione come coppia, o del figlio del compagno/a, e facendo una sanatoria per il pregresso, per salvaguardare i diritti dei bambini eventualmente già nati tramite gestazione surrogata. Nel frattempo, continuiamo a mantenere aperta la riflessione sulla possibilità che sia possibile una gestazione surrogata all’interno di una genitorialità allargata e solidale, fuori mercato (ma con rimborso delle spese sostenute dalla gestante) e con rispetto sia dei desideri e diritti della gestante, sia del diritto del bambino ad avere rapporti con lei.

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No alla guerra contro la Libia. Mobilitiamoci!

Alex Zanotelli
www.nigrizia.it

Siamo alla vigilia di un’altra guerra contro la Libia, a guida italiana questa volta.

Sembra ormai assodato che le forze speciali dell’esercito britannico sono già in Libia, per preparare l’arrivo di mille soldati di Londra. L’operazione complessiva, capitanata dall’Italia, dovrebbe coinvolgere seimila soldati americani ed europei per bloccare i cinquemila soldati del Gruppo Stato islamico (Is). Il tutto verrà sdoganato come «un’operazione di peacekeeping e umanitaria».

L’Italia, dal canto suo, ha già trasferito a Trapani quattro cacciabombardieri AMX pronti a intervenire. Il nostro paese – così sostiene il governo Renzi – attende però per intervenire l’invito del governo libico di unità nazionale, presieduto da Fayez el Serray. È altrettanto chiaro che sia il ministro degli esteri Gentiloni, come la ministra della difesa Pinotti, premono invece per un rapido intervento.

Sarebbe però ora che il popolo italiano, tramite il parlamento, s’interrogasse prima di intraprendere un’altra guerra contro la Libia. Infatti, se c’è un popolo che la Libia odia, siamo proprio noi italiani che, durante l’occupazione coloniale, abbiamo impiccato o fucilato centomila libici. A questo dobbiamo aggiungere la guerra del 2011 contro Gheddafi per «esportare la democrazia», ma in realtà per mettere le mani sul petrolio. Come conseguenza, abbiamo creato il disastro, facendo precipitare la Libia in una spaventosa guerra civile dove hanno trovato un terreno fertile i nuclei fondamentalisti islamici. E dopo tutto questo noi italiani abbiamo ancora il coraggio di intervenire alla testa di una coalizione militare?

Il New York Times del 26 gennaio afferma che anche gli Usa sono pronti ad intervenire. Per cui possiamo ben presto aspettarci una guerra. Questo potrebbe anche spiegare perché in questo periodo gli Usa stiano dando all’Italia armi che finora avevano dato solo all’Inghilterra. L’Italia sta infatti ricevendo da Washington missili e bombe per armare i droni Predator MQ – 9 Reaper, armi che ci costano centinaia di milioni di dollari. Non dimentichiamo che la base militare di Sigonella (Catania) è oggi la capitale mondiale dei droni, usati anche per spiare la Libia.

L’Italia non solo riceve armi, ma a sua volta ne esporta tante soprattutto in Arabia Saudita e Qatar, che armano i gruppi fondamentalisti islamici come l’Is. I viaggi di Renzi lo scorso anno in quei due paesi hanno propiziato la vendita di armi. Questo in barba alla legge 185 che proibisce al governo italiano di vendere armi a paesi in guerra e che non rispettano i diritti umani. (L’Arabia Saudita non rispetta i diritti umani e fa la guerra in Yemen)

Per cui diventa pura ipocrisia per l’Italia intervenire militarmente in Libia per combattere l’Is, quando appare chiaro che siamo anche noi ad armare in gruppo jihadista. Siamo noi a creare dei mostri e poi facciamo nuove guerre per distruggerli.

Papa Francesco ci ha detto recentemente: «La guerra è proprio la scelta per le ricchezze. Facciamo armi: così l’economia si bilancia un po’ e andiamo avanti con il nostro interesse. Il Signore ha detto: maledetti coloro che operano per la guerra, che fanno le guerre, sono maledetti, sono delinquenti!».

Basandoci su questa lettura sapienziale, dobbiamo dire “no” a questa nuova guerra contro la Libia. Quello che ai poteri forti interessa non è la tragica situazione del popolo libico, ma il petrolio di quel paese. Dobbiamo tutti mobilitarci!

In questo momento così grave è triste vedere il movimento per la pace frantumato in mille rivoli. Oseremo metterci tutti insieme per esprimere con un’unica voce il nostro “no alla guerra contro la Libia”, un “no” a tutte le guerre che insanguinano il nostro mondo.

Saremo in grado di organizzare un incontro a Roma di tutte le realtà di base per costruire un coordinamento o un Forum nazionale contro le guerre? È possibile pensare a una manifestazione nazionale contro tutte le guerre, contro la produzione bellica italiana, contro la vendita di armi all’Arabia Saudita e al Qatar, in barba alla legge 185? È possibile pensare a una Perugia-Assisi 2016, retaggio storico di Aldo Capitini, sostenuta e voluta da tutto il movimento per la pace?

Smettiamola di “farci la guerra” l’un con l’altro e impariamo a lavorare in rete contro questo Sistema di morte. Ancora ci guida Francesco: «La guerra è un affare. I terroristi fabbricano armi? Chi dà loro le armi? C’è tutta una rete di interessi, dove dietro ci sono i soldi o il potere. Io penso che le guerre sono un peccato, distruggono l’umanità, sono la causa di sfruttamento, traffici di persone. Si devono fermare».

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