Foglio di Comunità – N°9/2014

Bollettino informativo non periodico della Comunità cristiana di base
Distribuzione gratuita — Pinerolo (To), 31/8/2014

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LE EUCARESTIE

DOMENICA 14 settembre ore 10

DOMENICA 28 settembre ore 10

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GRUPPI BIBLICI

Il gruppo biblico del martedì sera (ore 21 presso la nostra sede al FAT) riprende il 2 settembre.

Il gruppo biblico pomeridiano si incontrerà lunedì 8 e lunedì 22 settembre, al FAT, alle ore 17.

Dedicheremo il mese di settembre all’approfondimento del tema proposto per il convegno regionale del 5 ottobre, a Torino. Il tema è quello della “cura del creato” e delle nostre scelte coerenti di vita, improntate alla sobrietà e alla condivisione. Inoltre questo lavoro sarà utile anche in preparazione del Convegno nazionale (6-8 dicembre).

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ASSEMBLEA DI COMUNITA’

Domenica 14 settembre, dopo una breve celebrazione eucaristica che inizierà alle 10. Chi può è invitato/a a fermarsi a pranzo per continuare lo scambio conviviale, oltre che del cibo, anche di pensieri, esperienze, incontri fatti durante l’estate… proposte…

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GRUPPO RICERCA

Lunedì 1, 15 e 29 settembre,alle ore 21, a casa di Paola ed Elio, riprendiamo la nostra ricerca continuando la lettura del libro “Femminismo Islamico. Corano, diritti, riforme” di Renata Pepicelli (Carocci ed). Ricordiamo che il gruppo è sempre aperto alla partecipazione di chiunque lo desideri.

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GRUPPO DONNE

Mercoledì 10 ore 21, da Luisa.

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INCONTRO CON LETIZIA TOMASSONE

Venerdì 22 agosto abbiamo trascorso una serata veramente ricca e feconda, molto partecipata.

Dopo l’assemblea di programmazione della comunità, Letizia ha condiviso con noi la cena. Successivamente, dopo una bella meditazione-preghiera proposta da Luciana e Lella, ci ha introdotto il tema: “La letteratura sapienziale: una visione d’insieme”. Si è addentrata nella presentazione con la proiezione di slides che hanno accompagnato il suo intervento. Pubblicheremo su Viottoli questo interessante lavoro.

A Letizia esprimiamo tutta la nostra gratitudine, sia per il suo intervento, sia per la sua partecipazione a tutta la serata comunitaria.

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UN SALUTO DA MARCO GISOLA

Caro Beppe, cara Carla e tutta la comunità,

vi ringrazio della vostra mail che ho ricevuto con molto piacere… mi piace molto l’immagine del “compagno di strada”: grazie a Dio le nostre strade si incrociano con le strade di altre sorelle e fratelli che vanno nella medesima direzione e a volte fanno proprio gli stessi passi, come è capitato a noi nel Comitato e in altre occasioni. Sono momenti di confronto, di scambio e anche di gioia nel condividere idee e progetti.

Portate i miei saluti a tutta la comunità e anche a voi l’augurio di proseguire con passione il cammino sulla “strada di Gesù”, come avete scritto voi. Gesù che ci precede per mostrarci la via, ci segue per spingerci quando arranchiamo, ci è al fianco per accompagnare le nostre scelte.

Un abbraccio anche a tutti voi. A presto.

Marco

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UN ABBRACCIO…

A Domenico e alla famiglia di sua sorella Silvia, che qualche giorno fa sono stati colpiti dalla morte improvvisa del cognato e marito Albino.

A Canzio e Luciana, a Franca e Lucia, a Maria e Ugo, a Elsa, a Maria Franca e a ogni fratello e sorella che in vari modi stanno attraversando periodi di sofferenza e fatica.

Il nostro affetto e le nostre preghiere sono costanti e vi facciano compagnia ogni giorno.

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CASSA DI SOLIDARIETA’

Ricordiamo che l’assemblea di comunità ha deciso di mantenere attiva una “cassa di solidarietà” da cui attingere per interventi di sostegno a chi si rivolgerà a noi in cerca di aiuto. Chi può e vuole contribuire si rivolga a Domenico

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IN PREPARAZIONE DEL PROSSIMO CONVEGNO REGIONALE CDB

Come già scritto sul foglio di giugno, il prossimo incontro regionale delle Cdb del Piemonte è confermato per il 5 ottobre a Torino, nella sede dell’associazione Opportunanda. Il tema su cui le Cdb sono invitate a riflettere è quella della “cura del creato” e delle nostre scelte coerenti di vita, improntate alla sobrietà e alla condivisione.

Sono i problemi di cui si occupa, a livello teorico, la cosiddetta “ecoteologia”. Adista pubblica regolarmente articoli e notizie al riguardo, segnalazioni di studi ed estratti di libri… Carlo Bianchin, degli “Sconfinati” di Torino, sta seguendo il lavoro di Adista con particolare attenzione, così abbiamo pensato di chiedere a lui la relazione introduttiva. E’ già disponibile una traccia del suo lavoro, di cui riportiamo qualche breve stralcio

N.B. – Il tema del Convegno Regionale è affine a quello del Convegno Nazionale di dicembre. In ogni comunità, anche nella nostra, c’è chi è particolarmente sensibile a queste problematiche, da punti di vista diversi e con sensibilità personali: a tutti e tutte rinnoviamo l’invito a far circolare le proprie riflessioni, riassunti di testi letti… e le indicazioni bibliografiche relative ai libri letti e alle riviste di cui ciascuno/a è affezionato/a lettore/a.

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A PROPOSITO DI IDENTITA’ CRISTIANA

Sul n. 23/2014 di Adista-documenti è riportata una lettera del frate agostiniano John Shea al cardinal O’ Malley e ai 180 vescovi degli Stati Uniti, in cui l’autore definisce eretica la dottrina cattolica sull’esclusione delle donne dal sacerdozio. Ne riporto uno stralcio che ci può aiutare a continuare la nostra riflessione sulla “identità cristiana”.

“(…) Un breve sguardo alla storia della schiavitù, alla storia del razzismo e dell’intolleranza religiosa e alla storia dell’inferiorità delle donne nella Chiesa aiuta a contrastare la nostra tendenza all’assolutizzazione. Ognuno di questi tre temi riguarda ciò che ci rende uguali e pienamente umani, ognuno è causa di incredibile violenza, spesso nel nome di Dio (…).

            La schiavitù. Il fatto che le donne, gli uomini e i bambini venissero ridotti in schiavitù a causa di conquista, castigo o presunta inferiorità, era considerato qualcosa di quasi “naturale”. Stranamente Gesù e s. Paolo non sembravano considerarlo eccessivamente un problema. Per secoli la schiavitù fu considerata come parte del “magistero ordinario infallibile” della Chiesa. Nel corso del tempo, tuttavia, e nel contesto dell’intolleranza razzista e religiosa, il pensiero nella Chiesa è cambiato drasticamente. Ora è il male intrinseco della schiavitù a far parte del “magistero ordinario infallibile” della Chiesa.

               Razzismo e intolleranza religiosa. Gli ebrei vennero considerati “perfidi” e crudelmente perseguitati. I musulmani, ritenuti “infedeli”, subirono le crociate proclamate dai papi. E’ giusto affermare che, per secoli, l’inferiorità di ebrei e musulmani è stata parte del “magistero ordinario infallibile” della Chiesa. In seguito, con la colonizzazione delle Americhe e poi dell’Africa, ci si chiese se i popoli nativi fossero realmente esseri umani dotati di un’anima uguale a quella dei maschi europei. C’è voluto moltissimo tempo e un’immensa sofferenza, ma alla fine l’orrore del razzismo e dell’intolleranza religiosa è diventato parte del “magistero ordinario infallibile” della Chiesa.

               L’inferiorità delle donne. L’inferiorità delle donne era considerata “naturale” nelle culture che sono state la culla del cristianesimo. Nella nostra storia questa inferiorità è stata abbondantemente ribadita dagli insegnamenti di s. Agostino e di s. Tommaso d’Aquino. Questi due meravigliosi teologi – probabilmente i due più influenti in Occidente – non solo si chiesero se le donne avessero un’anima vera e propria, ma superarono se stessi descrivendo le donne nei modi più spregevoli e disumani. Nessuna posizione nella Chiesa risulta più devastante e immodificabile del patriarcale disprezzo per le donne. Quando il Vaticano, negli anni ’70 e ’80, ha riflettuto sul fatto che le donne non potevano essere ordinate perchè non pienamente “a immagine di Cristo”, affermava un “magistero ordinario infallibile” radicato in modo incredibilmente profondo nel substrato della nostra Chiesa.

               Una spiegazione teologica valuta qualsiasi tema alla luce del messaggio cristiano. Se prende ovviamente in considerazione gli eventi storici e le loro interpretazioni, l’attenzione viene però rivolta prioritariamente a quelle interpretazioni della fede cristiana talmente centrali da chiamare in causa la nostra identità cristiana e persino il significato della fede. Nel loro magistero ordinario infallibile, secondo cui le donne non possono essere ordinate in quanto non pienamente “a immagine di Cristo”, il Vaticano e i vescovi offrivano una necessaria spiegazione teologica di tale questione. Si trattava di una spiegazione che intendeva chiudere il discorso, una spiegazione che intendeva definire la questione dell’ordinazione femminile in termini di identità cristiana (…)”.

Io penso che identità faccia rima con libertà, non solo in forma linguistica: ognuno/a è quello/a che è e quello/a che sceglie di essere. Le comunità “di base” siano luoghi di libertà personale da ogni tentazione di ortodossia e di identità collettive in qualsiasi modo imposte.

L’ortodossia è la preoccupazione pericolosa, ad es., del cardinal Müller, che contesta alle superiore religiose dell’Lcwr USA idee “contrarie alla rivelazione cristiana” (Adista Notizie n. 24/2014, pag. 11). Questo conflitto – agito da donne coraggiose e libere – smaschera ancora una volta il potere patriarcale di gerarchi che tentano di perpetuare il proprio dominio imponendo come unica possibile la propria lettura della “rivelazione cristiana”, il loro modello di “identità cristiana”.

Beppe Pavan

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ASSOCIAZIONE VIOTTOLI

Stiamo lavorando alla preparazione del n. 2 del 2014. La redazione si riunirà lunedì 8 settembre, alle ore 21, a casa di Carla e Beppe.

Ringraziamo tutti/e coloro che tramite email e telefono ci contattano e per gli apprezzamenti che sovente riceviamo. Vi invitiamo a collaborare mandandoci articoli, riflessioni, preghiere, recensioni…

Per chi ancora non lo avesse fatto, sollecitiamo il rinnovo della quota associativa: 25,00 € (socio ordinario) – 50,00 € (socio sostenitore); oppure potete versare un contributo libero utilizzando il ccp n. 39060108 intestato a: Associazione Viottoli – via Martiri del XXI, 86 – 10064 Pinerolo (TO) o con bonifico bancario: IBAN: IT 25 I 07601 01000 000039060108    BIC/SWIFT: BPPIITRRXXX

Vi invitiamo inoltre a richiedere copie saggio gratuite del nostro semestrale (per informazioni: viottoli@gmail.com). Sono disponibili alcune raccolte complete con tutti i numeri della rivista dal 1992 a oggi. Per informazioni potete scriverci o contattare Carla Galetto: carlaebeppe@libero.it

Sul nostro sito http://www.cdbpinerolo.it cliccando su VIOTTOLI —> ARCHIVIO DEI NUMERI ARRETRATI trovate, e potete scaricare gratuitamente, tutti i numeri in formato *.pdf dal 1998 al 2013.

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GRUPPO UOMINI IN CAMMINO

Il gruppo si incontra giovedì 4 e 18 settembre.

Nel week end del 23 e 24 agosto sono venuti a trovarci 5 uomini del gruppo di Verona e domenica 31 agosto siamo andati, tre di noi e tre del Cerchio degli uomini di Torino, a festeggiare il primo anno di vita del gruppo-uomini della Val Chiusella (vicino a Ivrea). Inoltre, da Daniele Bouchard abbiamo avuto la bella notizia che dal mese di maggio è attivo un gruppo di uomini anche a Pisa. Rallegriamoci tutti e tutte perché i sentieri della conversione e del cambiamento di vita sono sempre più frequentati!

Ricordiamo agli uomini che leggono questo foglio che il nostro gruppo è sempre aperto a chi sente il desiderio di conoscerci o di mettersi in cammino con noi. Basta una telefonata per un contatto preventivo con uno di noi.

Gli incontri del gruppo si svolgono presso la sede del FAT (Vicolo Carceri 1, Pinerolo) ogni quindici giorni, il giovedì, con il solito orario: 19-20,30. Poi andiamo in pizzeria a far cena.

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I MIEI PRIMI, INCERTI PASSI VERSO L’ECOTEOLOGIA

“fratello mandorlo, parlami di Dio
E il mandorlo si coprì di fiori“ (
Nikos Kaza,tzakis )

 Etimologia

Ecoteologia oikos – theo – logia = un discorso sulla relazione di Dio con la sua Casa (il cosmo)

Il cosmo (oikos) è sacramento divino, shekinà, dimora divina ( Moltmann)

Acquisire una coscienza ecologica significa riconoscere che Dio è nella creazione e abita l’acqua, l’aria, la terra ecc.

Dio compreso come ecosistema di Amore, cioè come un’infinita rete di relazioni d’amore.

Un Dio aperto, sempre in movimento, sempre in relazione.

Il teologo Torres Queriga dice che Dio non è Amore (sostantivo) ma Amare (verbo), Dio è creazione perpetua.

Uno sguardo sacramentale. “quando guardi un albero e vedi un albero, non hai visto realmente un albero. Quando guardi un albero e vedi un miracolo allora hai davvero visto un albero“ (A. de Mello).

Lo sguardo sacramentale implica recuperare il valore sacro della materia.

(…)

Le sfide dell’ecologia alle religioni

Oggi per la prima volta abbiamo una visione scientifica dell’Universo: la sua origine, le sue dimensioni, l’evoluzione, le galassie, i pianeti, la presenza della vita.

Durante i millenni della storia dell’uomo sulla terra le religioni si sono fatte carico di supplire alla ignoranza collettiva e rispondere alle paure con i miti e le superstizioni.

I miti crearono un “immaginario religioso importante, ma che non regge di fronte alla nuova scienza.

Essa ci presenta una visione del mondo finora sconosciuta:

– un universo in movimento totale e continuo

– un universo in espansione che iniziò con una esplosione e continua tuttora ad espandersi

– un universo orientato verso la complessità

– un universo collegato con reti, dove ogni particella è rapportata con il tutto.

Cambia perciò

– la rappresentazione della Natura

– la rappresentazione dell’essere umano

– la rappresentazione di Dio

S. Tommaso dice che ad un errore sulla Natura consegue un errore riguardo a Dio.

L’esplorazione scientifica è senza dubbio “una nuova esperienza di rivelazione“nella quale l’aspetto divino della realtà si manifesta in forma nuova.

Le religioni hanno bisogno di sentire il kairos ecologico e di rivolgersi al cosmo e alla natura per riconoscere in essi la nostra “storia sacra”

(…)

Come emerge Dio nel processo evolutivo?

L’idea di Dio sorge quando poniamo la seguente questione: che cosa c’era prima del big.bang?

Chi ha dato l’impulso iniziale? Il nulla? Ma dal nulla nasce il nulla.

Se sono apparsi degli esseri è segno che Qualcuno li ha chiamati all’esistenza e ne sostiene l’essere.

Ciò che possiamo dire in maniera sensata è che prima del big.bang esisteva l’Inconoscibile, c’era il Mistero. Per definizione sul Mistero e sull’Inconoscibile non si può dire niente.Di fronte a Dio vale più il silenzio che la parola.

Ciononostante si può percepirlo attraverso la ragione riverente e sentirlo nel cuore come una Presenza che riempie l’Universo. Posti tra cielo e terra, contemplando miliardi di stelle tratteniamo il fiato e ci riempiamo di riverenza. Dice il rabbino Heschel di NewYork “é impossibile disprezzare l’irrompere dell’aurora, restare indifferenti dinanzi allo sbocciare del fiore o non rimanere sbalorditi nel contemplare una creatura appena nata“.

L’Ecoteologia in alcuni documenti

Doc. associazione ecumenica teologi del terzo mondo

Nel quadro di una teologia assiale il passaggio dalla ecologia come scienza alla ecologia come paradigma è una delle principali sfide della riflessione teologica attuale.

In gioco non c’è solo la difesa dell’ambiente ma quello di una re-interpretazione del cristianesimo.

Solo un cambiamento della visione religiosa tradizionale può permettere la sopravvivenza della umanità perché smetteremo di distruggere la natura solo quando  scopriremo la sua dimensione divina e il nostro carattere naturale.

Partiamo da alcune considerazioni della teologia tradizionale sul cosmo, sull’uomo e su Dio.

L’immagine del cosmo che abbiamo ricevuto dalla tradizione è “piccola” a causa delle nostre carenze del mondo scientifico.

La Materia è considerata qualcosa di inferiore, di inerte, carente di vita. Oggetto di una visione dualista che l’ha separata e privata di ogni relazione con lo spirituale e il divino.

L’immagine della tradizione su noi esseri umani ci considera come esseri superiori, non ci considera realmente naturali, ma esseri superiori perché creati a parte da Dio quando già era pronto tutto lo scenario.

Di qui la concezione antropocentrica grazie alla quale tutta la realtà naturale è stata vista in funzione dell’essere umano.

Con una frase lapidaria Lynn White afferma: la religione giudaico-cristiana è quella più antropocentrica. Ne consegue che abbiamo considerato la natura come una realtà da dominare come un contenitore di risorse infinite e inesauribili.

Dal Neolitico la civiltà agraria ci trasmette un’immagine di Dio come theos, divinità dominatrice, maschile, guerriera, patriarcale. E’ questa visione religiosa tradizionale ed egemone che ha reso possibile la nascita e il consolidamento di un sistema predatorio nemico della natura e responsabile del disastro ecologico.

Quali sono gli aspetti di un nuovo paradigma nato nel corso degli ultimi tempi?

Una nuova immagine del cosmo

La nuova fisica ci rivela che la Materia non è inerte, che materia ed energia sono convertibili, che la vita tende a farsi più complessa.

Una nuova comprensione ci presenta la Natura provvista di sacralità, l’unica trascendenza che oggi possiamo accettare è profondamente immanente .

Dio non sta al di fuori né prima della realtà cosmica, il cosmo è  come il Corpo di Dio. La realtà stessa è sacra, è divina, è la santa materia di Teihllard de Chardin.

Una nuova immagine di  noi esseri umani

Non siamo stati “creati dal nulla“, da un theos separato dal cosmo,

Noi siamo polvere di stelle, formati dalla esplosione di una supernova. Siamo concretamente terra, terra-materia che ha preso vita ed è arrivata ad avere coscienza, a sentire, e pensare.

Siamo una specie tra le altre, anche se molto particolare, una specie che non ha il diritto di disprezzare gli altri esseri viventi.

Non siamo perciò una realtà distinta, essenzialmente spirituale, superiore, estranea alla terra.

Siamo pienamente tellurici. Siamo inter-connessi con tutto.

Distruggendo la natura, distruggiamo la nostra casa, la nostra nutrice.

Una nuova immagine della divinità

Il dio-theos patriarcale, immateriale, a-cosmico non è più credibile, anzi è un’immagine che ci ha fatto e continua a farci molto danno..

L’immagine nuova di Dio non la incontriamo solo nella Rivelazione il secondo libro scritto da Dio, ma nel primo libro, nella realtà, nel cosmo.

Il teismo (e l’ateismo) deve cedere il passo ad un atteggiamento Post-teista. Il Panenteismo (Dio in tutto e tutto in Dio) è il modello più accetto in questa era Ecozoica.

La divinità che non sta al di fuori, che non è qualcuno come noi (antropomorfismo) ma una realtà ultima che anima il corpo del cosmo.

Una divinità che non incontriamo per separarci dalla Materia e dalla terra ma che ci spinge a incontrarla appassionatamente in essa.

Questo è il compito urgente di educazione teologica planetaria.

La teologia ha la maggiore responsabilità riguardo al passato, ma al tempo stesso ha la capacità di affrontare l’urgente compito di cambiare visione.

Considerazioni conclusive parziali

Possiamo offrire una interpretazione del cristianesimo che sia compatibile tanto con la fede biblica quanto con la scienza contemporanea?

La scienza può aiutare la teologia  non solo a purificare l’immagine di Dio ma anche a formulare i contenuti della fede in un linguaggio che risulti comprensibile agli uomini di oggi..

Formarsi una mentalità ecoteologica per il credente significa superare l’antropocentrismo e scegliere la visione biocentrica dell’universo. La scienza ha complicato la comprensione che abbiamo di noi, infatti tenendo conto dell’età dell’universo risulta difficile postulare che l’uomo occupi il posto centrale… allora gli esseri umani si trasformano da inquilini incoscienti a custodi intelligenti e responsabili.

L’esistenza di Dio non sarà mai una verità scientifica, ma questo non significa escludere che l’ordine  bello e intelligente del mondo, non sia un riflesso del suo creatore.

Lo scienziato Chen Ning Yang, premio Nobel per la fisica afferma: “Mi domando come si sia potuto creare una struttura così magnifica. Mi suscita una sensazione profondamente religiosa nel senso più intenso della parola.

Una nuova concezione di Incarnazione

Superare l’idea di incarnazione vista come un Dio che sta lassù e che discende in terra e che poi ritorna lassù.

Incarnazione significa che Dio è dentro tutte le cose, è il potere e l’amore che sostiene l’essere finito.

Dio non interviene nella realtà creata, è già dentro ogni realtà.

Rahner mette in relazione il linguaggio metafisico della Causa Prima con il linguaggio biblico dello Spirito Santo. Lo Spirito Santo è il principio divino immanente che conduce la creazione verso un futuro aperto

L’idea di Incarnazione deve essere ampliata. Non è un avvenimento passato che si è svolto una sola volta, ma esprime il potere e l’amore intrinseco di Dio come Spirito che abbraccia l’essere fin dal suo inizio.

Teilhard de Chardin usa l’immagine delle  due mani di Dio come causa prima e cause seconde..

Le Fonti di questo saggio

Quanto ho scritto in questo testo è una elaborazione personale di alcuni saggi sulla Ecoteologia riportati dalla rivista Adista nell’arco di alcuni anni.

Carlo Bianchin

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MARCELLA ALTHAUS-REID, Il Dio queer, Claudiana, Torino 2014, pag. 315, € 24,50

Postfazione di Letizia Tomassone

Marcella Althaus-Reid si è fatta un nome nei circoli teologici per la sua insistenza su una piena integrazione della sessualità, della corporalità e delle persone ai margini nella teologia cristiana. Questo la porta a un ripensamento radicale, o quasi a una re-incarnazione di Dio, come dell’ermeneutica e del soggetto credente.

Perciò Althaus-Reid riprende il filo conduttore delle teologie della liberazione che è quello di restituire soggettività e voce a chi sta ai margini. Lei vuole che i loro/nostri corpi, odori, esperienze erotiche intreccino il parlare e sperimentare Dio. E i soggetti ai margini, per Althaus-Reid, non sono solo i poveri, ma le persone rese invisibili dai tabù del decoro borghese e dalla mentalità uniformante del colonialismo occidentale. sono soggetti disseminati in ogni luogo, non necessariamente raccolti in comunità definite. Si tratta quindi di proporre un discorso che smaschera la finta solidarietà del corpo di Dio. L’autrice mostra il paradosso, per un/a queer, di trovarsi a far parte di una comunità credente impegnata sui temi della giustizia e della pace ma in cui la propria esistenza erotica omoaffettiva o di trans è rimossa e non detta. Il corpo di Dio che è la chiesa nasconde i corpi concreti delle persone che lo compongono. È una critica radicale a un’ecclesiologia che tutto appiattisce, come il pensiero unico del mercato globalizzato.

Gli esempi del suo dire Althaus-Reid li prende dai bar in cui si balla la salsa in argentina, come dai boudoir descritti da De Sade. Luoghi mai frequentati dalla teologia eppure frequentati da persone che hanno con Dio un’esperienza, una storia, un desiderio. Già per questo diventa necessario per la teologia pensarsi in tali luoghi, luoghi di corpi non privi d’anima. La teologia di Althaus-Reid è un’ulteriore sfida alla separazione cristiana tra anima e corpo, sacro e profano, puro e impuro, religioso e non. In questo l’autrice si colloca pienamente anche nel filone delle teologie femministe. ma al tempo stesso affronta in un modo del tutto originale alcuni dei temi chiave di quelle teologie. Violenza ed esclusione le vede a partire da chi ne è segnata/o nel corpo e nell’esperienza, da chi le attraversa come luoghi del vivere. Non usa praticamente mai la categoria di vittima o di oppresso, perché le sue figure queer sono attive e presenti, anche quando vivono la violenza o l’umiliazione. È certamente perché il suo sguardo non è da fuori o dall’alto, ma da dentro l’esperienza queer. L’inizio del libro scorre quasi come un testo autobiografico in cui lei come soggetto si dice la teologa lesbica nascosta, e anche se fosse soltanto uno stile di comunicazione, si tratta di pagine potenti sui temi del nascondimento e dell’esclusione etero-affettiva della teologia cristiana (per non parlare che di questa, ma il discorso potrebbe essere allargato alle altre religioni).

Althaus-Reid ricava dunque i suoi punti di riferimento dalle persone omosessuali e transessuali conosciute in Argentina, dalla letteratura visionaria dell’America latina, da alcuni autori di romanzi erotici e dai fondamentali maestri del post-strutturalismo, Foucault e Derrida, tra gli altri. Qui e là discute anche con le teologhe femministe come fosse in un dialogo continuo e amichevole con loro, correggendo e annotando le loro frasi e affermazioni. e dedica ampio spazio al marchese De Sade che rappresenta per lei l’eccedenza dei corpi nel desiderio e nella sessualità. Quella presenza materiale che anche i discorsi sul genere tendono a nascondere, per parlarci sopra.

Riletture postcoloniali della Bibbia

Althaus-Reid continua a cercare i collegamenti tra ermeneutica femminista e postcoloniale, presentando immagini provocatorie di Dio e rileggendo alcune figure bibliche in modo radicale. Ad esempio, Raab, la prostituta pagana convertita che copre la fuga delle spie ebraiche e permette la presa di Gerico da parte delle truppe di Giosuè, diventa la figura del soggetto colonizzato, presa tra due impossibili fedeltà, cooptata per poter sopravvivere. L’epopea della conquista di Canaan illustra così in modo vivido la realtà attuale di soggetti che sopravvivono nel corso di guerre e conflitti usando unicamente il proprio corpo come scudo.

Notevole anche la rilettura della storia di Sodoma in cui è Lot colui che non è capace di accogliere e il cui dio è la forza crudele che distrugge. una “storia del terrore” anche per gli effetti che questo capitolo biblico ha avuto nel corso della storia sui corpi e sulle esistenze delle persone omosessuali. Mai infatti la violenza eterosessuale raccontata nella Torah ha squalificato l’esistenza eterosessuale, mentre questo cortocircuito è accaduto per l’omosessualità.

Lot rappresenta un potere patriarcale ben stabilito, che vuole sostituire la cultura di vicinato e accoglienza di Sodoma con la sua cultura che chiude le porte di casa. Un potere che dispone dei corpi decidendo quali sono a disposizione (le figlie) e quali non vanno toccati (gli ospiti-angeli). Questo uso gerarchizzato e depravato dei corpi sarà poi reiterato dalle figlie stesse per poter concepire nella genealogia paterna: una purezza patriarcale che contiene in sé l’orrore dell’incesto e del razzismo. Per la teologa, la mancanza di ospitalità a Sodoma è proprio quella esercitata da Lot, lo straniero che non può accettare la promiscua accoglienza e l’amicizia presenti sulla piazza della città. Quella piazza che viene individuata da Althaus-Reid come il luogo comune dell’accoglienza per i viaggiatori: un luogo pubblico che vediamo simile alle piazze di Occupy Wall Street, a piazza Tahrir, a Plaza de Mayo in Argentina. Lot introduce la diffidenza in luogo della condivisione, privatizza l’atto di accoglienza, rompe quel bene comune che è la solidarietà sociale.

Ma su questo episodio l’autrice dedica le pagine più importanti alla moglie di Lot, che si volta in un gesto di ribellione contro il dio che la sradica e la deporta, contro un divino percepito come fascista. Non c’è legittimazione possibile per il divino che distrugge una città intera. La moglie di Lot si volta indietro pensando alle vicine di casa, agli altri figli e alle altre figlie che non ha potuto portare con sé, ai/ alle nipoti rimasti, come una profuga che non può né vuole tagliare tutti i suoi legami. come Raab, anche lei è un soggetto colonizzato, e in quanto tale viene resa muta e immobile nel suo gesto di protesta. Ma la sua memoria sarà onorata nella tradizione dalle carovane di passaggio che useranno il sale della sua statua per ricordare l’unica possibile protesta contro un divino fascista, la resistenza a Dio di una dannata. In lei rivediamo le streghe bruciate e gli omosessuali violentati da poteri che non accettano comunità di mescolamenti etnici e culturali, e impongono un solo stile di vita ai corpi provati.

La moglie di Lot è per Althaus-Reid il parallelo biblico delle Madres y Abuelas di Plaza de Mayo, corpi in presenza che rimandano ai corpi assenti di figli e figlie fatti sparire da un potere violento e senz’anima.

L’uso di un linguaggio nuovo

Purtroppo la prosa di Althaus-Reid è a tratti altamente ardua (un duro lavoro per il traduttore, di cui è veramente apprezzabile lo sforzo di rendere comprensibile un pensiero complesso). È una prosa densa e difficile, perché certamente denso e difficile è il tema. Negli anni Novanta, in Italia, anche il pensiero della differenza era accusato di usare un discorso ermetico, le cui accezioni erano conosciute soltanto dalle donne già interne a quel percorso femminista. Tuttavia, un pensare nuovo ha anche bisogno di un lessico nuovo, e va esercitata tutta la nostra curiosità nei confronti del linguaggio di Althaus-Reid per far spazio a quell’esperienza più ampia del mondo che lei ci mostra. Ci sono però molti punti di contatto piuttosto interessanti con il femminismo italiano. uno di questi è la riflessione su legge e giustizia. A lungo le filosofe di Diotima si sono occupate della pratica relazione che è “oltre la legge”. Althaus-Reid aggiunge un tassello a questa riflessione, con l’aiuto della decostruzione di Derrida: le leggi vengono sempre decostruite e non sono stabili perché c’è un appello che viene dalla giustizia, che è “oltre la legge”, e che anche lei definisce come il sapere dell’amore.

Se il postmoderno è anche una gigantesca ricostruzione fantasmatica del reale, in questa realtà virtuale costruita paradossalmente grazie alla tecnologia, si possono installare solo ontologie deboli (per esempio, quella di Vattimo). L’ironia del cabaret è la sola cosa che può bucare la scenografia perfetta dietro cui la realtà è stata nascosta o addirittura eliminata. Anche Mary Daly ha usato il suo linguaggio del tutto inventato (ha compilato persino un dizionario di questo nuovo linguaggio) per esprimere la realtà del retroscena, quella che fa paura ma svela i poteri e i meccanismi del potere, quella realtà che restituisce libertà profonda e gioia alle donne. Althaus-Reid usa la parodia del sadomasochismo per mettere in luce i meccanismi del potere, della violazione e della vittimizzazione che sono dietro alla pantomima di amore e pena e alla loro restituzione estetica. La teologa usa anche la sodomia come la radicale uscita da una sessualità strumentale e procreativa, per parlare di sessualità gratuita come metafora della grazia divina. L’autrice vuole che la teologia veda finalmente i tipi di corpo che ha prodotto con la sua censura e la repressione. La teologia totalitaria ha infatti prodotto corpi sessuati e socialmente segnati, spesso in una direzione opposta a quella dell’evangelo. Nonostante l’idea centrale del cristianesimo sia l’incarnazione, in essa tutto ciò che è materiale, il soggetto incarnato che agisce la sessualità, non è considerato. Così la cultura egemonica nel cristianesimo ha dato origine alle culture marginali e dominate, e in questo Althaus-Reid si richiama a Foucault e alle sue archeologie, che collegano i discorsi l’uno all’altro. Così, il discorso sessuale non può essere isolato da quello economico o dalla definizione colonialista di razza. una teologia centrata sul soggetto sessuato non può trovare la via della giustizia se non smantella o almeno destabilizza l’egemonia eterosessuale. Per questa operazione, Althaus-Reid si serve di discorsi ed esperienze del piacere perverso e deviante. in questo modo i corpi controllati e ristretti che sono insieme corpi fisici e corpi retorici, sociali, ecclesiali, ideologici e sacramentali, sono tutti ridefiniti attraverso l’immagine del corpo nomade e non ben organizzato del libertino. Se le teologie della liberazione hanno introdotto in teologia il corpo della passione – «il corpo affamato, il corpo emaciato, il corpo solo dell’altro (il corpo torturato, malato, sottoposto a molestie e oppressione sessuale)» –, a lei interessa introdurvi il corpo del piacere e quel desiderio che sconvolge l’organizzazione duale della realtà. Al primo corpo corrisponde infatti un’etica della resistenza paziente e della dilazione della speranza. Il desiderio genera invece nel presente la nuova realtà.

Rompendo i canoni economici, sociali, etnici, di questo corpo stretto nell’eterosessualità obbligata della teologia totalitaria, Althaus-Reid pretende di poter far venire in luce altri corpi sessuali, non così funzionali all’economia e alla religione neoliberista, ma capaci di intimità e di amicizia. La teologa rompe la separazione tra privato e pubblico tipica del neoliberismo: una cultura che ha portato verso l’indifferenza e la non rilevanza dell’idea di giustizia. Oltre a ciò, la teologa smantella l’esaltazione dell’individualismo sfrenato, nel momento in cui mostra i legami di interrelazione tra culture egemoni e sottomesse. Althaus-Reid vuole produrre nuovi spazi per il desiderio dentro la teologia, spazi per le relazioni e gli scambi, e dunque produrre corpi nuovi in cui la sessualità ha una valenza esplicitamente politica. Per questo, la dimensione trinitaria orgiastica in Dio è per lei così importante. Un Dio in relazione, dove il termine «orgia» richiama una relazione di intimità sconvolgente con l’altro. Dio è un dio dialogico che «dipende dalle nostre relazioni, dal nostro stringere amicizia, dai nostri atti d’amore».

Kenosi e potere eterosessuale

In Queer God Althaus-Reid interroga non solo la teologia egemone maschile, ma anche quelle di matrice femminista. Lo fa non riconoscendo le donne come portatrici di una soggettività sovversiva, perché per lei il soggetto donna è già costruito (sulla scia di J. Butler) come parte della cultura dualista patriarcale. L’autrice assume invece come suoi soggetti sovversivi le lesbiche e le trans che vanno nei bar in cerca di compagnia per una serata. Il divino allora non è più onnipotente – l’onnipotenza dell’impero economico neocoloniale e globale – ma «onni-sessuale»: «un Dio sfrenato e poliamoroso, il cui sé si compone in relazione ai suoi abbracci multipli e alla sua mancanza di definizione sessuale, al di là dell’unità e al di là dei modelli duali della relazione amorosa» (p. 126).

Il divino si rispecchia e nasce dalle molteplici esperienze amorose dell’umanità sottratta all’oppressione del modello unico. Non soltanto la nostra identità sessuale è costruita attraverso la discorsività sociale, come afferma Butler, ma questo Dio definito attraverso l’incarnazione conosce il mondo nelle modalità degli abbracci che costituiscono le relazioni umane.

La critica al Dio dell’eterosessualità obbligata passa attraverso il suicidio della sua identità etero. Molto interessante a questo proposito è l’analisi della kenosi, lo svuotamento dell’onnipotenza di Dio in Cristo, attraverso le lenti delle teologie femministe e di quelle della liberazione. Con parole dirette e precise Althaus-Reid afferma che si è trattato di cercare di restituire potere ai poveri o alle donne, ma questa pratica non ha restituito effettivamente potere a nessuno. Allo stesso modo la teologia classica ha cercato di elaborare la dinamica di depotenziamento/kenosi senza togliere più di tanto potere a Dio; infatti, così lo ha reso ancora più potente. la via che Althaus-Reid vede è quella del “suicidio” del padrone/Dio eterosessuale, o quella del maestro che lascia andare gli allievi, nella linea di Freire. Ma soprattutto quella di un Dio che non è più definito dalla potenza maschile eterosessuale perché è da un lato mancante di definizione sessuale, dall’altro sfrenato e orgiastico negli abbracci della Trinità. Se tutto il rapporto tra Dio e Cristo è definito come il «domandare identitario di Dio stesso» (p. 122), la risposta non è in questa relazione duale, bensì nella trinità poliamorosa.

Come cambia dunque Dio? la teologa queer si rende «testimone dei territori liberati per l’essere di Dio» (p. 132), in cui Dio non appartiene più alla logica procreativa. È il Dio che non consuma il mondo della dimensione mistica, un divino che appunto già si presenta senza un’identità sessuale stabile e definita.

Il Dio che «cammina senza mani» o la metafora della redistribuzione delle terre in una riforma agraria diffusa che ha abolito il centro sono immagini potenti del divino diffuso dell’esperienza mistica, e del suo superamento di ogni confine definito dal modello eterosessuale che dominava la teologia. Margherita Porete si riferisce al divino come femminile e J. di Norwich riceve nutrimento dalle mammelle del crocifisso. Althaus-Reid ribalta e sovverte il nostro immaginario «portando Dio fuori strada», nei vicoli bui sotto casa nostra, e questa via era già battuta dalle mistiche e visionarie del medioevo.

La svolta di Marcella

Credo che sia illuminante un passaggio programmatico in cui la teologa afferma che le teologie queer hanno poco o nessun interesse a indagare la genealogia dei modelli teologici dominanti, quanto a vedere che cosa questi comportano per donne e uomini che sono fuori dalla norma eterosessuale. Mentre le teologie femministe hanno lavorato molto sui motivi per cui si sono formati linguaggi e strutture patriarcali nella chiesa e nella teologia, qui assistiamo a una svolta. Non è l’immaginazione o l’invenzione di un mondo diverso che apre a una nuova geografia teologica, ma la realtà sovvertita e vissuta nelle zone non visibili a chi indossa solo lenti di eterosessualità obbligatoria. Così la Trinità diventa molteplicità perché ogni persona trinitaria ha nei suoi nascondigli (closet) molti altri amici e amanti. Uscire dalla fissità del pensiero mono-amoroso significa aprirsi alla realtà e guidare Dio «fuori strada», verso sentieri non definiti dal giudizio eterosessuale in cui però già il divino abita, per il desiderio e la rabbia che le persone ai margini vi portano.

E ancora qui si situa la questione del potere. a volte la ricostruzione teologica non corrisponde a nulla di davvero presente nella Chiesa, serve solo a far “perdonare” e accettare la struttura di potere che essa è. Althaus-Reid, al contrario, assume la prospettiva di chi sperimenta e dice una verità là dove la verità non è benvenuta. Per far questo sta nel luogo in cui i concetti teologici vengono usati e ridefiniti attraverso atti di ribellione continui nel quotidiano. Questo significa che «l’estraneo queer» può ora parlare e dire Dio «a partire da una conoscenza di cui finora non si aveva fiducia» (p. 152). Si re-incarna così l’altro che apre la teologia alla promessa e al nuovo: è il corpo scuro (sporco) dell’indigeno che occupa lo spazio di Dio, dell’estraneo alla porta, che va accolto, e per accoglierlo tutte le categorie di inclusione ed esclusione vengono rimesse in discussione. La svolta di Marcella Althaus-Reid è dunque la svolta della realtà, di quel desiderio che non può essere racchiuso nell’organizzazione normativa della realtà. È lo sguardo della rabbia di quei soggetti che non si lasciano più rinchiudere e opprimere sessualmente. È al tempo stesso una potente domanda alla teologia perché esca dai territori che si è costruita per darsi un luogo e un certo potere, avventurandosi invece nei vicoli bui e nei bar di quartiere, e portando con sé Dio, un Dio nomade e “strano” come l’esistenza reale di tutti, queer appunto.

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“Le strade dell’Amore”

A Roma una conferenza internazionale sull’accoglienza delle persone LGBT nella Chiesa cattolica

Due giorni prima che abbia inizio il Sinodo dei Vescovi sulla Famiglia, che avrà luogo in Vaticano tra il 5 e il 19 ottobre 2014, alcune associazioni e gruppi cattolici dell’Europa, dell’Africa e degli Stati Uniti organizzeranno a Roma, il 3 ottobre 2014, la conferenza internazionale “Le strade dell’Amore, per una pastorale con le persone omosessuali e transessuali” che riunirà teologi e religiosi cattolici e non, genitori con figli omosessuali e cattolici omosessuali e trans per presentare ai padri sinodali una proposta concreta per la piena accettazione nella Chiesa delle persone omosessuali e transessuali.

Alla conferenza, moderata da Marco Politi, giornalista e vaticanista del Fatto quotidiano, interverranno come relatori:

Mons. Geoffrey Robinson, vescovo emerito dell’arcidiocesi cattolica di Sidney (Australia), che si chiederà come la Chiesa cattolica può incamminarsi verso una nuova comprensione delle persone LGBT perchè “Non c’è possibilità di cambiamento nella dottrina della Chiesa sugli atti omosessuali se prima non si compie un cambiamento dei suoi insegnamenti sugli atti eterosessuali”.

Padre James Alison, teologo cattolico e sacerdote inglese che ha operato molto in Sud America invece rifletterà su “come omosessuali e transessuali possono diventare i protagonisti di una nuova evangelizzazione più inclusiva e capace di accogliere tutte le diversità e di liberarle dal clima di oppressione e di discriminazione che si respira in molte parti del mondo”.

Suor Antonietta Potente, teologa e domenicana italiana che nel suo intervento “Dall’esilio all’inclusione, dall’attesa alla partecipazione: un nuovo approccio per le persone LGBT” proporrà alcuni spunti per arrivare atteggiamento più inclusivo, quando si parla di evangelizzazione con le persone LGBT;

Letizia Tomassone, pastora valdese, partendo dal suo punto di vista di Presidente della Commissione su Fede e omosessualità delle chiese Battista, Metodista e Valdese, racconterà il cammino che queste chiese hanno fatto dal pregiudizio all’inclusione completa;

Joseanne Peregrin, Presidente dell’associazione cattolica Christian Life Community di Malta e mamma di un ragazzo omosessuale, che parlerà delle paure e delle speranze dei genitori di persone LGBT.

Vi saranno anche alcune testimonianze di gay e lesbiche cattolici e la lettura di un “Appello per una pastorale di accoglienza delle persone omosessuali”, che poi sarà consegnato al Sinodo dei Vescovi. La conferenza internazionale “Le strade dell’Amore, vuol offrire ai padri Sinodali una serie di sollecitazioni per includere pienamente nella pastorale della chiesa cattolica gli omosessuali e le persone transessuali, le coppie dello stesso sesso e le loro famiglie perché “Il tema della famiglia non può essere discusso senza comprendere nella riflessione ogni tipo di famiglia basata sull’amore”.

La conferenza è patrocinata dall’European Forum of LGBT Christians (Forum Europeo di Cristiani LGBT) e realizzata con il contributo del Ministero dell’Istruzione, della Scienza e della Cultura dei Paesi Bassi. Si svolgerà presso l’Aula magna della Facoltà di Teologia Valdese, via Pietro Cossa 40, Roma (Italy)

Web site: http://waysoflove.wordpress.com   – pagina Facebook: https://www.facebook.com/waysoflove2014

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E’ il momento di realizzare davvero delle chiese inclusive per tutti

Riflessioni di Carlos Osma pubblicate sul blog homoprotestantes (Spagna) il 25 luglio 2014, libera traduzione di Marco Galvagno

Ancora oggi ci sono migliaia di persone LGBT sono nascoste con un travestimento eterosessuale dentro le chiese eterosessuali. Ci sono anche persone LGBT che vivono senza questo travestimento, però che non vogliono lasciare queste comunità fatte per eterosessuali, perché hanno paura di cambiare e di dover incominciare da zero, soffrono a dover lasciare una chiesa che, anche se non li accetta, è sempre stata per loro come una famiglia.

Per questo molti si consolano con l’idea che le cose cambieranno e che i passi si fan a poco a poco, che è necessario lasciarsi discriminare anche se solo un po’ in modo da poter rendere le chiese che amano tanto comunità più evangeliche.

Però alla fine è solo un autoinganno e lo sanno. Molte chiese sono fatte solo per eterosessuali e dicono di essere inclusive, solo per mostrare che non sono fondamentaliste come le altre. In fondo continuiamo a pensare che una persona LGBT debba accettare di essere discriminata in una chiesa che non lo accetta per quello che è. Però ci sono anche nuovi sentieri, le chiese post-eterosessuali o inclusive, le chiese formate da persone che si sono rese conto che non c’è niente da fare nelle chiese eterosessuali. Anche nel nostro paese e in molti altri a poco a poco stanno nascendo comunità inclusive, che vogliono portare il messaggio di salvezza a tutte le persone in modo particolare a quelle persone omosessuali o transgender che non hanno comunità che le rispettino o le accettino per come sono. Da un lato è una soluzione, un’ulteriore rottura in seno al cristianesimo, sarebbe stata migliore l’unità, però la realtà è che alcune persone per vivere il Vangelo devono scappare dai luoghi che dicono di predicarlo.

Inoltre potrebbe avere i suoi lati positivi le nuove chiese sono comunità che propongono una maniera diversa di essere chiesa diversa dalla chiesa tradizionale: la chiesa eterosessuale. Tuttavia nel momento di costruire una nuova comunità è importante ricordarci che un tempo siamo stati schiavi in Egitto e questo ci serve per potere costruire nuove chiese dove non esista nessun tipo di schiavitù.

Aver avuto l’esperienza di vivere in alcune comunità che parlano dell’amore di Dio verso tutti gli esseri umani e poi vedere che, in seno a queste chiese, le persone non eterosessuali vengono discriminate deve avere conseguenze nel momento in cui ci accingiamo a costruire comunità non eteronormative. E per fare questo oserei fare alcune osservazioni…..

Sull’interpretazione della Bibbia…

La Bibbia è stata l’arma utilizzata dagli omofobi per fare danni. La Bibbia letta fuori dal suo contesto e usando tecniche di studio e lettura sfasate è stata la pietra che ci veniva lanciata contro spesso nelle chiese eteronormative.

Le chiese inclusive non possono continuar a leggere la Bibbia nello stesso modo, devono appropriarsi di lei tenendo conto delle conoscenze teologiche attuali, devono respingere il fondamentalismo e le letture letterali del testo. Non si può costruire una chiesa inclusiva interpretando la Bibbia alla lettera, serve formazione.

E’ necessario capire che la Bibbia non è un’arma da brandire contro nessuno, ma anzi il luogo in cui tutti e tutte possiamo essere felici. La Bibbia può trasformarsi in un luogo d incontro e riconoscimento delle diversità.

Sulla diversità

Il cristianesimo non è una macchina per rendere le persone le une identiche alle altre, le chiese inclusive non dovrebbero cercare di costruire una tipologia precisa di persone. Le persone sono diverse le une dalle altre e le comunità inclusive devono cercare di mostrare questa diversità e capire che è una ricchezza che può dare benefici a favore della diffusione del Vangelo.

Dio ci ha resi diversi e diverse in modo che queste nostre caratteristiche possano essere messe al suo servizio, in modo che possiamo trovare nel fratello o nella sorella una persona che mi pone interrogativi sul mio modo di esistere e di vivere con gli altri. Dio ci ha fatti diversi in modo che possiamo riflettere meglio la diversità divina e perché possiamo il Padre anche attraverso la vita e le esperienze di altre persone.

Sulle strutture religiose

L’essere umano è al di sopra delle strutture religiose. Abbiamo incontrato molte volte persone che ci dicevano che dovevano rassegnarci ad essere discriminate per il bene della Chiesa. Però le chiese non dovrebbero mettere le comunità al di sopra delle persone che la formano.

La comunità è al servizio di tutti i suoi membri e sono le persone con i loro modi di essere, amare, vivere, capire il mondo, quelli che stanno costruendo che una nuova comunità, fino a dove lo Spirito li conduce. La comunità non può essere una camicia di forza, ma un luogo di vita per quelli che ne fanno parte.

Sull’umiltà

Non abbiamo ragione in tutto, le nostre proposte sono sempre parziali superate da altre che mostreranno quali sono i nostri errori. Non possiamo essere difensori di una verità atemporale e astorica siamo persone che muoviamo con la volontà di essere fedeli al Vangelo e di offrire la vita in abbondanza a persone che come noi vivono tormentate dall’omofobia, però non deve mancare in noi la umiltà reale e non di facciata che capisce che come tutti siamo persone che possono sbagliare e con le nostre contraddizioni. Non cerchiamo superuomini e superdonne nelle nostre comunità, ma esseri umani in carne e ossa con tutto quello che comporta, la vera umiltà non ci dovrebbe ostacolare, ne dovrebbe obbligare gli altri ad accettare i lati del nostro carattere che nemmeno noi stesso accettiamo.

Sul mondo

Formiamo parte del mondo, della società che ci circonda e siamo al suo servizio. Le persone che non fanno parte del nostro gruppo e non sono cristiane non sono nostre nemiche. Sono persone che possono insegnarci molte cose, persino il modo di essere fedeli al Vangelo impegnandoci per i più bisognosi. Sono persone alle quali possiamo avvicinarci per spiegare loro senza complessi la nostra fede, la nostra maniera di vedere il mondo e lavorare per la giustizia. Possiamo e dobbiamo entrare in dialogo con quelli che abbiamo vicino senza vederli come un obiettivo da guadagnare a Cristo, ma persone che come noi cercano di essere felici e rendere felici quelli che le circondano.

Sulle altre chiese

Denunciare l’omofobia, il fondamentalismo i comportamenti poco evangelici che disgraziatamente hanno alcune chiese, riviste, istituzioni, che ci circondano, verso le persone Lgbt non significa che dobbiamo negare che siano membri dello stesso corpo, della stessa chiesa.

Possiamo sentirci più vicini a alcune comunità e affermare che alcune impostazioni e modi di agire sono repellenti per noi, però non possiamo dimenticare che se siamo a favore del Vangelo, allora siamo tutti sulla stessa barca.

Anche se ci vogliono buttare giù dai bordi della barca, alla fine siamo sulla stessa barca. I cristiani e le cristiane che fanno parte delle chiese eterosessuali sono nostri fratelli e sorelle e questo non dobbiamo mai perderlo di vista, anche se in questo momento ci costa molto accettarlo. Dio ci ha resi tutti membri della stessa famiglia, fratelli e sorelle attraverso Gesù. Di sicuro ci sono molti altri punti di cui dobbiamo tenere conto nel momento di costruire le nuove comunità cristiane inclusive, però che almeno con questi possiamo incominciare a considerare ciò che stiamo costruendo, dove siamo e verso dove dove vogliamo andare.

Tornare a costruire comunità cristiane identiche a quelle dalle quali siamo usciti, sarebbe non aver imparato niente dell’esperienza vissute e soprattutto ancor più importante è costruire comunità in cui nessuno possa sentirsi discriminato, ne subire esclusioni e danni fisici e psicologici che molti di noi han già vissuto.

Le chiese inclusive non dovrebbero essere chiese omosessuali, ma chiese che vogliono aprirsi alla vita così com è e alla possibilità che tutte le maniere di essere, pensare e amare possano rafforzarla e renderla più forte e credibile nel trasmettere il Vangelo.

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Alla route nazionale degli scout, la “carta del coraggio” sfida chiesa e politica

Luca Kocci, Adista Notizie n. 30 del 06/09/2014

Accogliere divorziati, conviventi ed omosessuali, dare spazio effettivo alle donne, fidarsi della coscienza dei fedeli anche quando la pensano diversamente dal Magistero; chiudere i Centri di identificazione ed espulsione (Cie), concedere la cittadinanza a chi nasce in Italia (Ius soli), ridurre «drasticamente» le spese militari «perché l’Italia sia concretamente un Paese che ripudia la guerra». Sono queste alcune delle richieste che gli scout dell’Agesci, al termine della Route nazionale che si è conclusa nel parco di San Rossore (Pi) lo scorso 10 agosto, hanno rivolto al presidente della Cei, card. Angelo Bagnasco, e al premier con un passato da scout, Matteo Renzi, quindi alla Chiesa e alla politica italiana.

Come è nata la Carta del coraggio

Parole chiare, messe nero su bianco nella “Carta del coraggio”, il documento conclusivo della terza Route nazionale, redatto collettivamente da un “parlamentino” di oltre 450 scout dai 16 ai 21 anni, democraticamente eletti fra i 30mila partecipanti al raduno. In una prima fase i gruppi locali di rover e scolte (la fascia di età 16-21 anni) hanno caricato su una piattaforma informatica i loro contributi, sulla base dei quali è stata predisposta una bozza della Carta. Nel mese di luglio e dal 1° al 6 agosto, lungo i 456 percorsi che i gruppi hanno fatto dirigendosi a San Rossore per la fase finale della Route (6-10 agosto), la bozza è stata discussa ed emendata. Quindi ciascuna delle 456 route, a cui partecipavano mediamente 50-70 scout, ha eletto un proprio delegato. E a San Rossore, in tre giorni di lavoro, l’assemblea dei 456 scout ha redatto la versione definitiva della Carta che è stata consegnata a Bagnasco e Renzi, i quali hanno applaudito e ringraziato. Si vedrà ora le risposte che Chiesa e governo daranno ai 30mila scout di San Rossore.

Nella Carta si parla di territorio e ambiente da salvaguardare, di cittadinanza attiva da esercitare, di legalità e giustizia da realizzare, di informazione, lavoro, povertà, scuola, amore e vita ecclesiale. Ancora non è stata resa pubblica dall’Agesci. «Sarà inviata alle comunità rover e scolte con l’inizio delle attività, dopo una dovuta revisione stilistica e grafica, come previsto nel percorso di approvazione», spiegano in una nota Elena Bonetti, Sergio Bottiglioni e p. Giovanni Gallo, rispettivamente incaricati (i primi due) e assistente nazionale della Branca rover e scolte. «A ciascuna comunità sarà chiesto di confrontarsi con la Carta, in un importante lavoro di discernimento, per crescere e maturare ancora sulle strade di coraggio appena aperte. La diffusione, nella relazione con le istituzioni locali e la Chiesa, spetterà alle stesse comunità, secondo un itinerario che come Branca tracceremo».

Il dibattito fra favorevoli e contrari

Tuttavia all’interno del gruppo (chiuso) Facebook della Route nazionale la Carta sta circolando già da qualche giorno, perché qualche scout ha comunque deciso di pubblicarla. E sta suscitando un vivace dibattito, fra chi – la grande maggioranza – ne apprezza i contenuti, anche quelli problematici o critici, e chi invece – una minoranza – è preoccupato o in disaccordo con le affermazioni che sembrano evidenziare una certa distanza dal Magistero, soprattutto sui temi etici.

Severe critiche sono arrivate da alcuni periodici e siti web dell’associazionismo cattolico integralista (come Il Timone e Risposta cristiana). Ma anche da una «lettera firmata» da «alcuni capi scout» – che però restano anonimi – pubblicata sul portale notizieprovita.it, in cui viene detto che alcune delle opinioni dei ragazzi sono «al limite con i principi fondativi della nostra associazione o con la dottrina della Chiesa». «Non abbiamo alcuna intenzione – scrivono i sedicenti capi scout – di educare i nostri ragazzi alle deliranti teorie del gender o ad altre follie simili della nostra epoca! La nostra proposta è mirata unicamente ad educare, secondo gli insegnamenti autentici di Cristo, buoni cristiani e buoni cittadini, capaci un giorno, con spirito critico e con una solida base valoriale cattolica, di compiere le scelte che più riterranno opportune per realizzarsi pienamente nella loro vocazione, sia essa nella vita religiosa, nel vincolo sacramentale della famiglia naturale, nel lavoro». Un deciso apprezzamento, invece, arriva dal settimanale online della Diocesi di Bergamo, Sant’Alessandro, in un articolo a firma del sociologo Marco Marzano (23/8). Si tratta di «un testo importante», scrive Marzano, elaborato da giovani che hanno presentato alla Chiesa e al Paese, un lungo e articolato elenco di riforme: «Hanno chiesto alla Chiesa di non discriminare nessuno in base all’orientamento sessuale, di accogliere al proprio interno (e non solo di tollerare) gay, divorziati e conviventi, di esibire uno stile di vita e di governo davvero sobrio e “povero”, di concedere finalmente un ruolo più incisivo alle donne e ai laici; hanno avuto l’ardire questi giovani di chiedere ai vescovi, ed è uno dei passaggi più belli e convincenti della Carta, di fidarsi dei loro fedeli, di considerarli cristiani adulti e maturi, e di non temerli, di non pensare di doverne tenere a bada presunti pericolosi istinti devianti. È il disegno, coraggioso e splendido, di una Chiesa rinnovata e fiduciosa del futuro». E si tratta, prosegue, di «una trama collettiva, un delizioso frutto democratico, non il prodotto dell’intelligenza di uno solo, non l’emanazione del carisma di un eletto, di un duce grande o piccoletto». «Il miglioramento della Chiesa e dell’Italia nasce così, quando, come un grande intellettuale collettivo, migliaia di persone si mettono insieme per pensare al loro futuro, per discutere, con serietà e passione, del mondo che vogliono costruire insieme agli altri». Di seguito i passaggi più significatici della Carta del coraggio.

La Chiesa accolga qualsiasi scelta d’amore

«Desideriamo essere testimoni di un amore autentico e universale – si legge –, non come mero uso del corpo, ma come cammino fatto di rispetto, attenzione all’altro, dialogo aperto e sincero, visto come via per aprirsi al mondo e andare oltre le sovrastrutture mentali». «Ci impegniamo ad essere testimoni di un amore autentico ed universale e a portare avanti valori di non discriminazione e di accoglienza nei confronti delle persone di qualunque orientamento sessuale; a vivere coraggiosamente e con serietà una scelta consapevole di amore autentico e duraturo, considerando la famiglia (intesa come qualunque nucleo di rapporti basati sull’amore e sul rispetto) come comunità primaria e strumento privilegiato di formazione ai valori di apertura e convivenza dell’individuo nella società, senza discriminare persone che hanno vissuto o stanno vivendo esperienze quali divorzio o convivenza. Chiediamo all’Agesci di allargare i propri orizzonti affinché tutte le persone, indipendentemente dall’orientamento sessuale, possano vivere l’esperienza scout e il ruolo educativo con serenità senza sentirsi emarginati. Chiediamo inoltre all’Agesci che dimostri maggiore apertura riguardo a temi quali omosessualità, divorzio, convivenza, attraverso occasioni di confronto e di dialogo, diventando così portavoce presso le istituzioni civili ed ecclesiastiche di una generazione che vuole essere protagonista di un cambiamento nella società. A questo proposito, chiediamo alla Chiesa di accogliere e non solo tollerare qualsiasi scelta di vita guidata dall’amore»; «di mettersi in discussione e di rivalutare i temi dell’omosessualità, convivenza e divorzio, aiutandoci a prendere una posizione chiara; che lo Stato porti avanti politiche di non discriminazione e accoglienza nei confronti di persone di qualunque orientamento sessuale, perché tutti abbiamo lo stesso diritto ad amare ed essere amati e che questo amore sia riconosciuto giuridicamente affinché possa diventare un valore condiviso».

Il primato è della coscienza

«Chiediamo di non essere giudicati rispetto al tipo di legame affettivo che viviamo – scrivono gli scout nella Carta del coraggio –, ma di essere aiutati ad accettare noi stessi con tutti i nostri limiti e ad amare in modo autentico». «Chiediamo alla Chiesa uno stile di vita sobrio ed essenziale, coerente con il messaggio del Vangelo; che venga attribuito alle donne e ai laici un ruolo sempre più attivo all’interno della Chiesa». «Chiediamo ai vescovi di essere aperti all’ascolto della capacità che ha il Popolo di Dio di esprimere ciò in cui crede»; «di avere fiducia nella coscienza delle persone, che nasce da una consapevolezza cattolica, specialmente in ambiti in cui essi adottano delle posizioni che si discostano dal sentire comune, quali la sessualità, il valore della vita e il ruolo delle donne nella Chiesa».

Chiudere i Cie, aprire allo Ius soli

«Chiediamo alle istituzioni nazionali ed europee e alla Chiesa – si legge ancora nella Carta – che i migranti siano messi nelle condizioni di lavorare dignitosamente e legalmente, di studiare, di divenire parte integrante della società; all’Unione europea lo snellimento delle procedure burocratiche e che inoltre venga revisionato il trattato di Dublino, chiedendo un’omogenizzazione delle politiche di accoglienza e di integrazione, un’apertura di nuovi canali di immigrazione legali e sicuri; alle istituzioni italiane di abolire i Cie»; «di concedere la cittadinanza a chi nasce in territorio italiano o a chi termina un determinato ciclo di studio/lavoro»; «chiediamo alla Chiesa e alle istituzioni di concedere luoghi adatti alla preghiera e alla professione delle diverse religioni».

Fedeli alla Chiesa senza tema di dire la nostra

La distanza rispetto ad alcuni punti del Magistero dei “principi non negoziabili” pare significativa. Lo riconosce anche uno dei due presidenti dell’Agesci, Matteo Spanò, intervistato da Avvenire (13/8) alla fine della Route: «Ci sono elementi creativi e stimolanti anche sulla tematica dell’appartenenza alla Chiesa. Ma ci sentiamo così tanto Chiesa che portiamo anche questo pensiero al suo interno. Non bisogna aver paura di un pensiero, ma guardarlo, capirlo, sapendo che come associazione noi siamo nella Chiesa e fedeli ad essa». La Carta del coraggio non è un documento ufficiale dell’Agesci – del resto alcuni temi, soprattutto quelli di natura ecclesiale legati alle questioni etiche, sono piuttosto controversi nell’associazione –, ma l’Agesci da qui intende ripartire, avviando un percorso franco e dialettico, come confermano anche gli incaricati nazionali rover e scolte, Bonetti e Bottiglioni, e l’assistente, p. Gallo: «Si tratta ora di ripartire da qui. Dall’ascolto, che deve farsi dialogo con questi cittadini, con i quali le istituzioni e la Chiesa hanno accettato di confrontarsi e con cui la nostra associazione vuole continuare a camminare, iniziando un proprio percorso di approfondimento educativo e politico sui temi richiamati dalla Carta del coraggio».

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Adozioni omosessuali, una sentenza storica

Stefano Rodotà, Repubblica 30 agosto 2014

Con una decisione saggia e rigorosa il Tribunale per i minorenni di Roma ha concesso l’adozione di una bambina da parte di una donna convivente con la madre biologica. Le ragioni di questa decisione sono indicate nitidamente nella sentenza, dove si sottolinea che «la legge italiana consente al convivente del genitore di un minore di adottare quest’ultimo a prescindere dall’orientamento sessuale dei conviventi. Una diversa interpretazione della norma sarebbe non solo contraria al dato letterale, alla ratio legis e ai principi costituzionali, ma anche ai diritti fondamentali garantiti dalla convenzione europea dei diritti dell’uomo». Si può ben dire che si tratta di una decisione storica, nella quale tuttavia non si può cogliere alcuna forzatura o “supplenza” giudiziaria.

Le parole appena ricordate mettono in evidenza come la via scelta dal Tribunale fosse l’unica percorribile, se si vuol rispettare quella soggezione del giudice alla legge di cui la Costituzione parla all’articolo 101. Da tempo, infatti, la legge italiana e sentenze nazionali e internazionali hanno indicato con chiarezza quali siano i criteri da seguire perché, in una materia così delicata, possano essere garantiti i diritti fondamentali delle persone, in primo luogo quelli dei minori.

Per evitare equivoci interessati, bisogna subito ricordare che il Tribunale non ha affrontato questioni come il riconoscimento di un legame matrimoniale tra persone dello stesso sesso o l’attribuzione a queste coppie del diritto all’adozione legittimante, materie per le quali ha riconosciuto esplicitamente la competenza del legislatore. La sentenza è fondata sull’articolo 44 della legge del 1983, che prevede l’adozione «in casi particolari» sottolineando che «l’adozione è consentita, oltre che ai coniugi, anche a chi non è coniugato». È evidente, quindi, che questo tipo di adozione prescinde tanto dall’esistenza di un matrimonio, quanto dall’orientamento sessuale di chi intende adottare; e l’articolo 44 non lo vieta né ai single né alle coppie formate da persone dello stesso sesso. Ignorare questo dato normativo porterebbe a una illegittima discriminazione tra coppie eterosessuali e coppie omosessuali.

La sentenza ricorda una decisione della Corte costituzionale del 2010, che ha riconosciuto la rilevanza costituzionale delle unioni omosessuali, poiché siamo di fronte ad una delle «formazioni sociali» di cui parla l’articolo 2 della Costituzione, sicché alle persone dello stesso sesso unite da una convivenza stabile «spetta il diritto fondamentale di vivere liberamente una condizione di coppia», che comprende anche le decisioni riguardanti i figli.

La Corte ha poi specificato che «può accadere che, in relazione a ipotesi particolari, sia riscontrabile la necessità di un trattamento omogeneo tra la condizione della coppia coniugata e quella della coppia omosessuale». E, nel 2012, la Corte di cassazione ha insistito proprio su questo punto, dicendo esplicitamente che, trattandosi di diritti fondamentali, le coppie formate da persone dello stesso sesso possono rivolgersi ai giudici «per far valere, in presenza appunto di specifiche situazioni, il diritto ad un trattamento omogeneo a quello assicurato dalla legge alla coppia coniugata». Il caso particolare deciso dal Tribunale rientra esattamente tra quelli che la Corte costituzionale e la Corte di cassazione avevano messo in evidenza, sicché non è proprio il caso di parlare di un vuoto normativo.

Questa è una linea che attua quanto è scritto nella carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea che, nell’articolo 9, ha abbandonato la distinzione tra coppie eterosessuali e omosessuali. E bisogna ricordare che la Corte europea dei diritti dell’uomo, occupandosi nel 2013 proprio di adozioni, ha ritenuto che sia discriminatorio prevedere trattamenti differenziati tra questi tipi di coppia. Le nuove forme di genitorialità trovano così pieno riconoscimento.

Muovendo da questo ineludibile contesto giuridico, il Tribunale ha esaminato con grande scrupolo la situazione concreta, per accertare se l’interesse della bambina fosse adeguatamente garantito. E lo ha fatto con dovizia di riferimenti alla sua condizione psicologica, alla qualità dell’ambiente familiare, alla necessaria stabilità della convivenza che le due donne hanno voluto garantire anche attraverso espliciti impegni giuridici. Nessun rischio di pregiudizio per «insano sviluppo psicologico della piccola», dunque. Che invece potrebbe venire, come ricorda la sentenza dal «convincimento diffuso di parte della società» che stigmatizza questo tipo di unioni. È da augurarsi che questa decisione contribuisca ad un comune cammino di incivilimento, mostrando come alcune reazioni di oggi siano solo manifestazione di quella «politica del disgusto» i cui pericoli sono stati così bene illustrati da Martha Nussbaum.

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Riparte da donne ecumenismo e migranti, l’impegno del sinodo valdese

Ingrid Colanicchia, Adista Notizie n. 30 del 06/09/2014

Non c’è che dire: anche quest’anno il Sinodo della Chiesa valdese e metodista – svoltosi dal 24 al 29 agosto scorso a Torre Pellice (To) – ci ha messo di fronte ai mali della nostra società. Ma offrendo come sempre una proposta, un progetto alternativo che possa far rifiorire la speranza nel deserto che vediamo intorno.

La cura del servizio

Ha indicato sin da subito che direzione avrebbero preso i lavori sinodali – cui partecipano 180 membri con diritto di voto, pastori e laici in numero uguale – la predicazione del culto di apertura tenuta dal pastore Claudio Pasquet, il quale – partendo dal brano di Marco (10,42-45) nel quale, alla richiesta dei discepoli di occupare i posti d’onore nel suo Regno, Gesù risponde esortandoli a diventare “servi di tutti” – ha lanciato un forte appello a seguire la strada del discepolato e del servizio verso l’altro, senza lasciarsi affascinare dalle logiche di potere di questo mondo. «Avete sete di potere e di vittoria? Guardatevi attorno!», ha esortato Pasquet: «I principi delle nazioni, i tiranni, i cesari si sono dissetati a questa fonte. Voi sapete a quale prezzo questo sia accaduto. Guardatevi attorno e vedrete le conseguenze di questa brama, sulle persone e sui popoli. Sono principi delle nazioni quanti hanno anteposto la finanza alla salute, allo stato sociale, al lavoro dei giovani. Sono principi delle nazioni quelli che, nel nome di Dio, vogliono imporre la loro religione agli altri con terrorismo e violenze. Sono principi delle nazioni quanti vogliono continuare a dominare sui più deboli, a discriminare le donne, a distruggere l’ecosistema nel nome di un progresso sociale che non arriva mai». Gesù, ha ricordato Pasquet, offre invece ai suoi discepoli un’altra strada, quella di una libertà cristiana che si esprime prima di tutto nel servizio, nella critica alle logiche di questo mondo e alla brama di potere che opprime i deboli: «Ai mali del mondo, come le guerre che anche oggi ci minacciano e sono le terribili metastasi di tumori chiamati potere, prestigio e denaro, vi è la sola cura del servizio e della solidarietà», ha ribadito Pasquet

Migranti: ultimi tra gli ultimi

Inevitabile quindi che nell’agenda dei lavori del Sinodo ci fosse la questione dei migranti, ultimi tra gli ultimi, che la Federazione delle Chiese evangeliche in Italia (Fcei) ha messo al centro del progetto Mediterranean Hope realizzato con il sostegno dell’8 per mille valdese e presentato al Sinodo, dove è stato accolto con favore. Il progetto – nato in risposta alla tragedia del 3 ottobre 2013, quando quasi 400 persone persero la vita al largo di Lampedusa – prevede la costituzione di un “osservatorio” delle migrazioni a Lampedusa e l’apertura di un centro di accoglienza a Scicli (Rg) che, a regime, potrà ospitare sino a 50 persone. «Un’iniziativa che ha una grande valenza ecumenica e internazionale – ha spiegato il presidente della Fcei, il pastore Massimo Aquilante (Nev, 13/8) – sia perché abbiamo già avviato fruttuosi contatti con chiese e parrocchie siciliane interessate a collaborare, sia perché intendiamo sensibilizzare le nostre Chiese sorelle al fatto che Lampedusa è una frontiera tra l’Occidente e il Sud globale, quell’area del mondo che subisce povertà e guerre che poi generano grandi flussi migratori. E su questa frontiera della solidarietà le Chiese evangeliche italiane chiedono il sostegno e l’impegno dei loro partner internazionali».

Appello contro la violenza di genere

Grande rilevanza ha avuto anche la questione della violenza di genere, al centro della riflessione e dell’azione della Chiesa valdese già da diverso tempo: nel solo 2013 le Chiese metodiste e valdesi hanno stanziato ben 670mila euro dei fondi 8 per mille a favore di iniziative di ascolto e accoglienza di vittime di violenze. «Una questione – ha sottolineato la pastora Maria Bonafede, ex moderatora della Tavola valdese – sulla quale le Chiese hanno la possibilità di offrire una parola significativa nell’ambito pastorale, educativo e culturale». Per questo la Fcei si è fatta promotrice di un appello ecumenico affinché le diverse confessioni cristiane diano vita a progetti contro la violenza sulle donne. «Abbiamo già avuto un primo riscontro positivo dalla Cei e speriamo di poter avere una risposta positiva anche dalle Chiese ortodosse», ha spiegato Bonafede presentando l’iniziativa. «Una voce comune di tutti i cristiani non avrebbe solo un maggior peso, ma delineerebbe un metodo ecumenico per affrontare insieme questioni specifiche».

«La violenza di genere non è un fatto soggettivo ma è una questione che attraversa trasversalmente l’intera società, Chiese comprese», le ha fatto eco Gianna Urizio, presidente della Federazione delle donne evangeliche in Italia (Fdei): «Per contrastarla bisogna partire dai saperi e dall’esperienza delle donne, ma soprattutto bisogna che gli uomini inizino a sentire come proprio questo problema e ad interrogarsi su se stessi e sulla qualità delle loro relazioni», ha concluso Urizio, rallegrandosi per la possibilità di affrontare la questione della violenza di genere in una dimensione ecumenica e ricordando il cammino della Fdei a partire dall’adesione nel 1998 al Decennio delle Chiese contro la violenza sulle donne, promosso a livello internazionale dal Consiglio ecumenico delle Chiese.

A sorpresa, lo zampino del papa

Il tema dell’ecumenismo ha avuto una certa eco anche a causa di un avvenimento assolutamente inedito. Quest’anno infatti non solo hanno partecipato ai lavori il vescovo di Pinerolo, mons. Piergiorgio Debernardi e il presidente dell’Ufficio per l’ecumenismo e il dialogo interreligioso della Cei, mons. Mansueto Bianchi, ma con una lettera, firmata dal segretario di Stato Vaticano, card. Pietro Parolin, il papa stesso ha inviato ai 180 delegati del Sinodo e a tutta la comunità valdese il suo «saluto fraterno» e la sua «vicinanza spirituale». Il papa, vi si legge, «prega il Signore, per intercessione della Vergine Maria, di concedere a tutti i cristiani di progredire nel cammino verso la piena comunione, per testimoniare il Signore Gesù Cristo ed offrire la luce e la forza del suo Vangelo agli uomini e alle donne del nostro tempo». Quel riferimento all’intercessione di Maria non ha mancato di suscitare qualche polemica. E di «nota stonata» parla anche, su Riforma, settimanale delle Chiese evangeliche battiste, metodiste e valdesi (29/8), Luca Baratto, sottolineando però che l’attenzione «oltre misura» data a questo elemento, mostra di non «aver colto la portata del messaggio ricevuto» e di non avere a mente «le parole di Gesù sul far notare il bruscolino che è nell’occhio dell’altro».

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Portare più armi non difende le vite

Floriana Lipparini, www.womenews.net

Portare più armi e rinfocolare la guerra non significa difendere le vite dei civili. Finché esisteranno paesi come il nostro che guadagnano grazie al commercio di armi, chi potrà credere alla buona fede di un intervento come quello adottato dalle nostre ministre Mogherini e Pinotti? Sono forse troppo giovani per sapere cosa è successo negli anni Novanta in Iraq e poi in Afghanistan? Sanno quante armi l’Italia fornisce a Israele e ad altri paesi in guerra? Sanno delle mine che uccidono bambini e di chi le fabbrica? Si sono mai chieste se esiste un altro modo di pensare e di agire, rispetto alle politiche maschili?

Rovesciando completamente l’ordine di idee della filosofia classica che s’interroga sulla morte e sulla trascendenza, Hannah Arendt ci ha detto che il punto di partenza per noi creature terrestri è la nascita, ossia la vita. Quella che le guerre, le armi e l’ingiustizia sociale continuano a cancellare, come se al centro del mondo regnasse un potere arcaico e brutale asserragliato in un kafkiano e inespugnabile castello. Eppure è impossibile negarlo: la millenaria genealogia maschile che da quel castello governa il mondo ha fallito.

Apprendisti stregoni che hanno creduto di poter usare a proprio vantaggio focolai di odio e di violenza oggi credono di poterne contrastare le spaventose conseguenze usando ancora una volta gli stessi strumenti di morte.

La feroce lotta di accaparramento delle risorse planetarie che le grandi potenze stanno conducendo da secoli e più ancora da decenni insanguina il mondo e cancella il futuro. Davvero qualcuno crede alla favola degli Usa che in nome dell’Occidente “esportano democrazia”? Gli Usa e i loro alleati hanno appoggiato terroristi in Afghanistan, in Iraq, in tutto il Medio Oriente, per i propri interessi, e poi, quando i demoni sono usciti dalla bottiglia, non sono più riusciti a fermarli. Il terrorismo è diventato quindi il nemico globale e onnipresente che giustifica il perpetuarsi di guerre e atrocità, a oriente e a occidente. Chiese e guerre, patrie e confini… ma oggi diremo piuttosto banche e mercati.

Il terrorismo però è l’altra, spaventosa faccia del sistema di potere fondato sul profitto, sullo sfruttamento, sulle speculazioni di borsa e sulle agenzie di rating che ugualmente distruggono paesi e persone ma in apparenza senza sporcarsi le mani.

Quel castello, dunque, va decostruito dalle fondamenta, le pietre vanno spostate per liberare il passaggio ostruito e far fluire una corrente di acqua pulita, un altro ordine di pensiero, un’altra maniera di concepire la vita e la società.

Ora mi guarderò bene dal dire che sono “le donne” ad avere questo compito, dato che come categoria sono un’entità astratta di cui nulla si può dire, se non che la condizione storica di assoggettamento del genere femminile è un fatto certo e documentato. Voglio invece parlare delle numerose donne che dai margini, dalla periferia della storia hanno riflettuto su se stesse, a partire da se stesse, anche dalle proprie incertezze e contraddizioni, scoprendo in tal modo una seconda vista, o un terzo occhio, chiamiamolo come vogliamo, per disegnare una trama completamente diversa da quella che finora ha tenuto insieme i brandelli di un mondo ingiusto, destinato al disastro.

Donne che sono andate nei luoghi difficili, hanno tessuto dialoghi, creato ponti, proposto soluzioni, indicato strade. Ve ne sono dappertutto, in Palestina, in Israele, in India, in Kenia, in Mali, in Argentina, in tutta Europa… Di solito, tranne alcune eccezioni, non si trovano fra le poche giunte ai vertici dei poteri governativi e internazionali, perché in quei casi ha prevalso l’obbligo di adeguarsi alla funesta realpolitik delle classi dirigenti. Si trovano invece alla base dei movimenti non governativi e nei gruppi femminili, in ruoli di leader morali o di semplici attiviste, non importa, quello che conta è la differenza radicale dello sguardo e dei punti di vista rispetto alle situazioni e ai conflitti, la lucidità critica rispetto alle rovinose strategie adottate dagli attori internazionali, coloro che hanno purtroppo la facoltà di decidere.

Le armi uccidono, portare più armi ai contendenti significa portare più morte. Teoricamente le Nazioni Unite e la nostra stessa Costituzione mettono in guardia dalla guerra e la ripudiano come mezzo di risoluzione dei conflitti internazionali. Parole vuote, evidentemente, per la maggior parte dei nostri politici. E nessuno di loro sembra ricordare che esistono altre forme di intervento come l’interposizione Onu tra le parti in conflitto, che molta parte del pacifismo continua giustamente a richiamare. Questa sarebbe dovuta essere la scelta nella ex Jugoslavia e specificamente in Bosnia, come dovrebbe esserlo oggi a Gaza, in Ucraina e in Iraq. Certo, si tratta pur sempre di operazioni disperate per arginare tragedie, mentre si dovrebbero invece prevenire alla radice le follie avvelenate dei signori della guerra di ogni tipo e natura.

Allora, a tutte quelle donne che ostinatamente hanno ancora la forza di pensare altre vie e altri mondi, vorrei dire che dobbiamo davvero riprendere parola, decostruire quel castello, entrare in scena e cambiare la trama. Cosa può significare nei fatti? Ad esempio organizzare un’assemblea permanente in luoghi significativi – reale e/o telematica – e da lì diffondere un’altra voce rispetto al mainstream ufficiale. Videoconferenze e Skype oggi possono aiutare moltissimo a creare reti e contatti. Ma di sicuro tante altre idee e possibilità potrebbero nascere da un nuovo e urgente ritrovarsi. Perché no in settembre, alla Casa delle Donne di Milano?

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Perché non possiamo dirci femministi

Matteo Persivale, http://27esimaora.corriere.it

Joseph Gordon Levitt, 33 anni, attore dal curriculum interessante (film indipendenti come “Mysterious Skin” e kolossal non banali come “Inception”), regista intelligente (“Don John” con Scarlett Johansson, apologo su un Don Giovanni da Jersey Shore), giovane uomo di buoni studi (Columbia University), ha recente fatto coming out parlando con il Daily Beast: «Sono un femminista».

Una dichiarazione lodevole nell’intento, garbata e per niente predicatoria nella forma, ma assai discutibile nella sostanza. Perché i confini della solidarietà con chi è vittima di discriminazione, a qualsiasi livello, sono ben definiti da una questione centrale: sarebbe ovviamente ridicolo se un uomo bianco – o una donna bianca – sostenessero di essere, per solidarietà, neri. Un uomo femminista?

È – quasi – la stessa cosa. Tutta la (lodevole) determinazione a impegnarsi per la parità – di diritti, di opportunità, di trattamento – tra donne e uomini non cambia il fatto inequivocabile che una categoria non sottoposta a discriminazione non può pensare di sapere, davvero, cosa significhi, partire svantaggiati.

Perché la propria identità è, in questo, una uscita di sicurezza, una garanzia, una polizza di assicurazione senza data di scadenza: gli uomini bianchi, eterosessuali, privi di handicap fisici o cognitivi, che hanno potuto studiare e che vivono in Paesi industrializzati (come milioni di uomini: come Gordon-Levitt, e come l’autore di questo post) sono la categoria storicamente meno oppressa della storia umana.

Noi uomini di buona volontà possiamo cercare di informarci, di non ripetere gli errori delle generazioni precedenti, di impegnarci a essere colleghi e partner rispettosi a disposti all’ascolto. Possiamo indignarci ascoltando gli aneddoti francamente sconfortanti che ci raccontano le nostre amiche, le nostre sorelle, le nostre compagne e le nostre mogli, i mille episodi di piccola e grande discriminazione, dai commenti che in altri Paesi sarebbero giustamente inaccettabili sul luogo di lavoro alle molestie vere e proprie, tutte le cose che a noi non toccherà mai subire, per nostra (non meritata, succede e basta, se sei un uomo) fortuna.

Possiamo far vedere con l’esempio, ai nostri figli, se ne abbiamo, che lavare i piatti o cucinare o fare i mestieri di casa non è una prerogativa genetica riservata per misteriosi motivi alle loro madri e alle loro sorelle. Possiamo leggere, capire, informarci. Ma restiamo per forza di cose al di fuori dei confini della discriminazione per combattere la quale il femminismo è nato.

Gli uomini sensibili alle ragioni del femminismo restano uomini. Ecco perché possiamo dirci uomini di buona volontà, possiamo sognare la parità e impegnarci, nel nostro piccolo, per un mondo dove ci siano meno disuguaglianze di genere. Possiamo fare il tifo per le nostre amiche, le nostre compagne, le nostre colleghe. Gioire per le loro piccole e grandi vittorie. Possiamo sognare un mondo – o, almeno, un’Italia — dove sia banalmente normale vedere donne capufficio, donne amministratrici delegate, donne presidentesse. Un’Italia dove l’attuale eccezione diventi una civilissima, scandinava, banale regola. Possiamo sostenere le quote rosa. Semplicemente, non possiamo dirci femministi.

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La fatica di diventare uomini diversi

Barbara Mapelli, http://27esimaora.corriere.it

Paolo Di Stefano ha scritto un articolo interessante, denso emotivamente ma anche ricco di stimoli di riflessione, sui padri che uccidono i loro figli. E propone di dare un nuovo nome a ciò che sta accadendo, figlicidio: credo sia giusto perché quando avvengono fatti nuovi, soprattutto se seriali, occorre inventare parole nuove, che li nominino nei loro significati, diversi rispetto al passato. Il giornalista termina il proprio scritto con un elogio all’imperfezione (dei genitori) e non si può che dargli ancora ragione: la ricerca della perfezione, madri perfette, padri che cercano di emularle, può generare sentimenti e situazioni difficili da controllare. Sentimenti di inadeguatezza, frustrazione, isolamento, difficoltà di comunicazione con l’esterno ma anche dentro la coppia.

Penso che tutto questo sia giusto osservarlo e che si debba ancora andare avanti a pensare insieme, riflettere, cercare di capire sempre più cosa sta accadendo e perché fenomeni dal segno positivo – le nuove e più consapevoli, partecipate paternità – possano trasformarsi e divenire percorsi di violenza e orrore.

Credo che tutto quanto accade nei cambiamenti dei rapporti tra donne e uomini abbia un legame, non si possa cioè esaminare i diversi fenomeni separatamente. Mi permetto allora un breve excursus per tentare una visione d’insieme, che sarà inevitabilmente parziale ma che si potrà comporre con altre riflessioni perché dobbiamo farlo, è necessario farlo, è l’unica risposta a fenomeni che ci sembra di non saper arginare e comprendere.

Da alcuni decenni abbiamo assistito, e alcune/alcuni di noi contribuito con le proprie scelte, con il proprio pensiero, a una rivoluzione epocale nelle relazioni di genere. Avviata dalle donne ha coinvolto anche gli uomini e credo più profondamente di quanto non appaia.

Donne e uomini sono cambiati, stanno cambiando e questo inevitabilmente riguarda il complesso della vita di ognuno, i rapporti privati, pubblici, professionali, riguarda quindi anche le famiglie, le nuove famiglie che si sono formate e si vanno formando. Per molteplici motivi – l’ansia di non essere all’altezza del compito genitoriale se si lavora, una presa di distanza dalla generazione precedente di madri “scellerate” e altri ragioni ancora – le giovani madri ambiscono a un modello di perfezione, non si accontentano di essere le madri “buone” o “sufficientemente buone” di Winnicott.

Accanto a loro uomini/padri spesso ammirati di questa ricerca e a loro volta concentrati nell’impresa di essere nuovi rispetto al modello del padre assente ancora dominante nelle generazioni precedenti. Di questa ambizione maschile si sono rapidamente impadroniti i media e la pubblicità, e allora un fiorire di spot, di copertine di rotocalco, di storie edificanti, cui nessuno di noi riesce a sottrarsi nel momento in cui ci incantiamo davanti a un passeggino condotto da un uomo, osserviamo con commozione il padre indomito, incurante della fatica e del sole, che costruisce castelli di sabbia, sistema costumini, infila braccioli, abbraccia con morbidi asciugamani corpicini bagnati.

Come misurarsi con tutto ciò, come confrontare i propri tentativi, talvolta maldestri, con queste immagini e con le madri sempre pronte a segnalare manchevolezze, imprecisioni o errori?

Lontani da immagini e modelli edificanti gli uomini/padri reali fanno i conti con le loro fatiche, con le contraddizioni che vivono ancora potenti di modelli ben diversi di maschilità. Si fa molta fatica, mi racconta uno di loro, a divenire uomini diversi, scontrandosi con un passato ancora ben vitale, e si fa molta fatica a crescere con i propri figli, ci si sente fragili e vulnerabili, incapaci e il vulnus che può far perdere la testa spesso è o sembra un motivo futile, scrive ancora Paolo Di Stefano, ma appare come un ostacolo insuperabile all’uomo che non sa opporvisi, che manca – ed è qualcosa che invece noi donne solitamente abbiamo – di un confronto, di un dialogo con uomini nella sua stessa situazione.

Vicini a donne che appaiono più brave in tutto, sottoposti a una continua proposizione di modelli inarrivabili, vivono frustrazioni legate non solo alla paternità, ma alla loro (presunta) inadeguatezza come uomini, ormai destituiti, o volontariamente rinunciatari, alle barriere di sicurezza edificate dalla società patriarcale, erosa nei suoi valori, ma che ancora non è morta, e, se è morta, scrive Sandro Bellassai nel suo bel libro L’invenzione della virilità, «non se ne sono ancora celebrati i funerali».

E siamo tutte e tutti noi che dobbiamo celebrarli questi funerali, prendendone coscienza, parlandone, sì anche tra donne e uomini, cercando di capire cosa si muove nella testa e nel cuore di quel padre, che non trascura la palestra e spesso è tatuato, e al contempo cerca di apprendere il senso, reale, del suo essere padre. Che non è divenire una madre di serie b, ma che significa probabilmente assumersi compiti, apprendere nuove virtù o riscoprirne e aggiornarne di antiche, che ancora sfuggono, a lui e a ognuno di noi.

Non posso e non voglio dare consigli, parlo delle mie esperienze e cerco di capire cosa succede intorno a me, vorrei che si generassero non solo parole nuove che parlano di eventi terribili, ma che nascesse, se pure a gradi, una quotidianità che si interroga, che non lascia soli e non lascia cadere un discorso, che è necessario e difficile, ed è il discorso dei tempi in cui viviamo.

Una quotidianità che investe singoli e singole, che racconta le loro storie, che divengono corali e riguardano la collettività, perché questa è la caratteristica delle riflessioni e pratiche di genere, essere tema privato e al contempo pubblico.

Una responsabilità di trasformazione delle esistenze di ognuno e di tutti che è troppo pesante per essere portata da ogni singola persona, donna o uomo che sia.

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La parola d’ordine è fermare lo “stato islamico”. Anche fra i musulmani

Eletta Cucuzza, Adista Notizie n. 30 del 06/09/2014

È una guerra di religione quella dell’Iraq, si dice (per esempio, il patriarca cattolico Ignace Joseph III Younan: l’invasione dello Stato Islamico è «pura e semplice pulizia religiosa e tentato genocidio», Cns 28/8). No, si controbatte (per esempio, il card. Pietro Parolin, segretario di Stato Vaticano: «Non si tratta assolutamente di uno scontro tra islam e cristianesimo», Avvenire 25/8), è una guerra fra poteri “secolari”. È un conflitto regionale, si osserva pilatescamente. No, è un conflitto che coinvolge il mondo intero.

Non è indifferente la definizione che si dà della tragedia che si sta svolgendo in terra di Iraq e Siria, non lo è ai fini della ricerca di una soluzione. Ma a questa non si arriverà – e ci vorranno comunque anni (decenni?) – se non si coglierà e si affronterà l’insieme, perché non ci sono compartimenti stagni nel vissuto degli esseri umani, la religione da una parte, la politica dall’altra, l’economia da un’altra ancora; né c’è, nella storia, totale frattura o apparizione di un totalmente inedito, c’è solo un continuum di eventi concatenati. E poiché il batter d’ali di una farfalla in Cina – tanto più se intenzionale e in difesa di interessi economico-strategici – può avere conseguenze catastrofiche in ben altri e lontani luoghi, nessun Paese (dagli Stati Uniti all’Europa, dalla Russia all’Iran, a Israele, all’Arabia Saudita, per citare i più geopoliticamente vicini) può dirsi innocente in merito all’irruzione nella cronaca e nei corpi dei nostri giorni di una forza consistente, ricca di proventi del petrolio, armatissima e feroce come quella dello Stato Islamico dell’Iraq e del Levante (Isil), sunnita, ormai “Califfato” insediato in un territorio transnazionale e con dichiarate mire espansionistiche. E soprattutto nessuno può ormai, ed era ora, chiamarsi fuori dalla ricerca di una via d’uscita. Si sta procedendo però in ordine sparso: se sono mesi che le forze militari governative della Siria (come anche alcune milizie anti-Assad) cercano, con alterne fortune, di arginare l’espansione dell’Isil, dalla fine di giugno gli Usa ne bombardano le postazioni con i droni e gli europei pochi giorni fa hanno deciso di inviare armi ai curdi, i più volenterosi ed organizzati nella resistenza all’avanzata jihadista in territorio iracheno.

Un nemico per due. Nemici

Decisione, questa, per quanto riguarda l’Italia, votata senza unanimità (contrari Sel e Movimento 5 stelle) in Parlamento e non unanimemente accolta al di fuori di esso. Contro l’invio si è espresso p. Alex Zanotelli che, in una corposa intervista dall’ampia visione su il Fatto Quotidiano (24/8) insorge: «Ma il governo ragiona? Lo sa cosa significa dare armi ai curdi? Vuol dire spaccare il Paese in tre. Ma in fondo è questo che vogliamo: spaccare tutto. Come abbiamo fatto nel 2003, per una guerra che oggi gli stessi americani reputano folle. Ma oggi è tardi. Abbiamo sconfitto Saddam Hussein. “Missione compiuta”, disse Bush. Oggi i nemici sono i fondamentalisti islamici, ma ci scordiamo che sotto Saddam Hussein quella roba non c’era. E nemmeno sotto Gheddafi. Ci scordiamo tutto, invece dovremmo ricordare. Ad esempio il bombardamento di Fallujah col fosforo bianco» da parte degli Usa, nel 2004. «La mia – specifica – è un’opinione categorica: è tutto profondamente sbagliato. È la solita vecchia storia che serve ad alimentare l’industria bellica ed è il solito Occidente che piange gli stessi cadaveri che causa. Quei morti escono dalle nostre fabbriche». «Questa è la strategia dell’Occidente: aprire nuovi fronti bellici per vendere più armi». Certo che «l’Isil fa paura», «in questi casi però è l’Onu che dovrebbe intervenire: diventare una forza di interposizione, creare cordoni umanitari. Lo so, è facile criticare il suo operato, ma la comunità internazionale ha bisogno di una forza morale che faccia da guida». E in azioni coordinate, è ancora il suo rilievo.

Proprio in questo solco di azioni coordinate – e per ironia della storia, c’è da chiosare – si è mosso il presidente della Siria Bashar al-Assad, anch’egli alla ricerca di un modo per fermare il Califfato sotto il cui controllo è già parte del territorio siriano. Assad, attraverso il suo ministro degli esteri, Walid al-Moallem, il 25 agosto ha fatto sapere che Damasco sarebbe d’accordo con azioni militari contro l’Isil sul proprio territorio, «anche della Gran Bretagna e degli Usa». A condizione, ovviamente, di «un pieno coordinamento con il governo siriano» e con l’avviso che attacchi aerei in Siria contro i militanti dello Stato islamico senza il consenso di Damasco «sarebbero considerati come una grave violazione della sovranità siriana e come un’aggressione». Da Washington, che già il giorno successivo ha iniziato intanto la ricognizione del territorio con i droni, è arrivata una risposta nervosa, considerando quanto abbia sposato la rivolta armata anti-Assad dal 2011: eventuali attacchi dai cieli siriani «non saranno concordati con il governo di Assad», il «nemico comune non fa del governo siriano un alleato dell’America». Per entrambi un gioco delle parti: bisogna pur salvarla la faccia.

Si muova l’Onu

L’Onu è ben consapevole di quanto sta succedendo. «Gravi e orribili violazioni dei diritti umani sono commesse ogni giorno», ha denunciato il 25 agosto l’Alto Commissario delle Nazioni Unite per i diritti umani Navi Pillay parlando da Ginevra; ad esser presi di mira «sono uomini, donne e bambini, in funzione della loro appartenenza etnica, religiosa o settaria», vittime di conversioni forzate, rapimenti, abusi sessuali, schiavitù, oltre che della distruzione dei loro importanti siti religiosi o culturali.

Il patriarca caldeo Louis Raphael I Sako, in un appello inviato all’agenzia AsiaNews (25/8) – dopo una visita agli straripanti campi profughi di cristiani e di altre minoranze religiose irachene nelle province di Erbil e Dohok dove, quanto visto e sentito, ha dichiarato, «va al di là di ogni più fervida immaginazione!» – ricorda che non si sono ancora trovate «soluzioni concrete» alla crisi, mentre continua inarrestabile «il flusso di denaro, armi e combattenti» per lo Stato islamico. Il mondo, ha proseguito, «non ha ancora compreso la gravità della situazione» e che con «la migrazione di queste famiglie» sta causando «il dissolvimento della storia, del patrimonio e dell’identità di questo popolo». Gli Stati Uniti e l’Europa, ha lamentato il patriarca, non hanno saputo prendere provvedimenti per «alleviare la sorte» di una popolazione martoriata.

Mons. Saverio Maria Tomasi, osservatore permanente della Santa Sede presso l’Ufficio Onu di Ginevra, in un’intervista a Radio Vaticana (25/8), ha ricordato che il papa «continua a fare appelli alla comunità internazionale e a tutti noi credenti di pregare per trovare la via della pace, invitando al negoziato e invitando i Paesi che ne hanno la capacità, attraverso i meccanismi delle Nazioni Unite, di fermare l’aggressore». A Rimini, dove partecipava al Meeting di Cl, mons. Tomasi ha annunciato una più che possibile presenza del card. Fernando Filoni, inviato personale del papa, all’Onu: alla prossima sessione del Consiglio per i diritti umani delle Nazioni unite «potrebbe dare la sua testimonianza sulla sua missione in Iraq». Qui, a metà agosto, il card. Filoni ha trascorso una settimana su incarico di Francesco. Il 22 agosto, in un’intervista a la Repubblica, ha raccontato: «Il papa non mi ha mai detto: vai per i cristiani. No. Ma: vai per tutte le minoranze. Per cui, la Chiesa ha preso a cuore le situazioni di tutti. Io sono stato dagli yazidi», «li ho trovati pieni di sofferenza, di lacrime. Mi hanno detto: noi non abbiamo più forza né voce. Per favore, siete voi la nostra voce. Ecco perché come Chiesa stiamo parlando a favore di tutti: per gli yazidi e per gli sciiti cacciati dai villaggi, per i sabei e per gli shaba. E anche per quei sunniti che non accettano questa ondata di terrorismo». Sul quale si è così espresso: «Questi gruppi operano mostrandosi ben forniti di armi e di denaro. La domanda è come sia possibile che questo passaggio di risorse sia sfuggito a chi ha il dovere di controllare e su chi muove da lontano le cose».

Fare la guerra no. Ma inviare armi?

«Quando c’è un’ingiusta aggressione – aveva affermato Francesco a proposito della situazione irachena il 18 agosto sull’aereo che lo riportava a casa dalla Corea – è lecito fermare l’aggressore ingiusto. Fermare solo, però: non dico bombardare, fare guerra. I mezzi debbono essere valutati». Fa eco a queste parole la dichiarazione del Consiglio permanente della Conferenza episcopale tedesca del 26 agosto, intervenendo nel dibattito in corso in Germania circa la fornitura di armi ai curdi. «Il terrore in Iraq deve essere fermato e agli sfollati deve essere data la possibilità di rientrare al più presto nelle loro case», si legge. Quando sono in gioco «lo sterminio di interi gruppi etnici e gravi violazioni dei diritti umani», considera la nota nel solco della dottrina cattolica della guerra giusta («legittima difesa con la forza militare», secondo il Diritto Canonico), la comunità internazionale ha il dovere di fermare in qualche modo l’aggressore ingiusto «per scongiurare crimini peggiori».

I vescovi europei, riuniti nel Consiglio delle Conferenze episcopali del continente, hanno inviato al Consiglio di Sicurezza dell’Onu, il 12 agosto scorso, un appello perché l’organismo sovranazionale «prenda delle decisioni che pongano fine a questi atroci atti». «La tragedia che sta accadendo nel Nord dell’Iraq», osservano, «non soltanto mette in pericolo la convivenza multiculturale che è parte integrante del nostro mondo globalizzato, ma costituisce anche un rischio per i cristiani in una regione in cui abitano dai primordi della cristianità, e la cui presenza è apprezzata e necessaria per la pace a livello regionale e mondiale».

In una dichiarazione pubblicata al termine della loro riunione svoltasi il 27 agosto a Bkerké, in Libano (Fides 28/8), i patriarchi e i Capi delle Chiese orientali hanno denunciato «i crimini contro l’umanità» commessi dallo Stato islamico in Iraq «contro i cristiani, gli yazidi e le altre minoranze». Ringraziando quanti offrono assistenza umanitaria agli sfollati, i patriarchi chiedono un intervento deciso per fermare le «azioni criminali» del Califfato. Si chiede in particolare alle istituzioni islamiche di pronunciarsi contro l’Is e gruppi simili, che con le loro azioni «danneggiano considerevolmente l’immagine dell’islam nel mondo».

La condanna delle autorità musulmane

E a condannare per primi l’iniziativa politico-militare e le efferate azioni del Califfato (proclamato il 28 giugno scorso da Abu Bakr al-Baghdadi, autonominatosi Califfo), sono proprio le massime autorità musulmane, preoccupate della reazione islamofoba che sta percorrendo il mondo. Secondo l’Organizzazione della cooperazione islamica (Oci, con 57 nazioni aderenti), «quanto sta avvenendo non ha niente a che fare con l’islam; di islamico quello Stato, che Stato non è, non ha nulla». Mentre, Dar al-Ifta, il principale istituto di studi giuridici dell’islam fondato in Egitto nel 1895, in una dichiarazione del 24 agosto, ha dichiarato illegittimo il Califfato, negandogli anche il diritto di definirsi «Stato islamico» e proponendo di definirlo piuttosto «Sqis», ovvero «Separatisti di Al Qaeda in Iraq e Siria, più adatto a definire quei criminali che distorcono l’islam e seminano l’odio».

In Italia, la condanna dell’Is espressa dall’Unione delle Comunità e Organizzazioni Islamiche (Ucoii) è netta: «Si tratta – si legge in una nota diramata il 12 agosto – di forze mercenarie, in gran parte extra irachene» e totalmente illegittime, perché «quando una forza che affigge insegne islamiche viola tutte le regole sharaitiche e morali del conflitto, nessuna referenza religiosa potrà essere avanzata per giustificare o sostenere» tali comportamenti. «I musulmani iracheni – continua la nota – contrastano queste aberrazioni e sono in prima linea nella difesa e la protezione dei cristiani non solo militarmente: sedici Ulema (dotti di scienze religiose) musulmani sunniti, che appartengono a confraternite sufi di Mosul, lo scorso mese sono stati uccisi da quei criminali per aver difeso i cristiani della città». «Per tutte queste ragioni attinenti alla nostra lettura islamica, etica e cultura, siamo solidali – conchiude la nota – con i cristiani dell’Iraq e con le altre minoranze perseguitate».

«Perfino i teologi musulmani sono rimasti spiazzati dalla proclamazione del Califfato», ha rivelato al Corriere della Sera (26/8) il vicepresidente dell’Ucoii, l’imam Yahya Pallavicini. «Dalla “primavera” – ha ammesso – è iniziata una fase di caos anche a livello teologico, con divisioni accresciute tra i sapienti». «Nessuno però, nemmeno tra i salafiti più puritani», informa, «riconosce al-Baghdadi come califfo: se ha convinto qualcuno, temo purtroppo anche in Italia, è stato a livello individuale perché promette riscatto all’islam, in modo ovviamente distorto».

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