Lunedì 14 maggio 2012 – Vangelo di Matteo cap. 18

Il cap. 18 viene anche indicato come il capitolo che riguarda “norme di ordinamento comunitario” . Secondo il commentatore (Ortensio da Spinetoli) i problemi che esistono all’interno della comunità non sono particolarmente numerosi ed assillanti.

Vengono individuati :

–          il problema dell’autorità (vv.1-5)
–          gli scandali (vv.6-9)
–          i vacillanti nella fede (vv.10-12)
–          la riconciliazione con i fratelli peccatori (vv.15-18)
–          la preghiera comune (vv.19-20)
–          il perdono reciproco (vv.21-35).

Si intravede una comunità che non è proprio ideale: arrivismi, invidie, ecc.

Mt., applicando la parola di Gesù, esorta a porre rimedio a queste fragilità della comunità. Ci sono molte lacune ma ci vengono indicati gli sforzi che la chiesa fa per essere fedele alla parola e alla vita di Gesù.

Non si identificato figure preminenti ma un “centro di autorità” (la comunità stessa) da cui provengono soluzioni (vv.17-18).

Il brano può essere diviso in due parti:

–          la prima costruita intorno al termine “fanciullo”  e “piccolo”
–          la seconda intorno al termine “fratello”.

Entrambe le parti si concludono con il riferimento al Padre (v.14 e v.35).


vv.1-4

Il tema urgente è la convivenza comunitaria; vi sono aspirazioni ad essere “i più grandi”, ci sono sentimenti di gelosia.

Mt. ha distaccato la domanda (v.1) dal contesto storico (Mc.9,35 –discussione tra i discepoli di chi è il più grande) per toccare il tema che riguarda l’intera comunità.

La risposta di Gesù è che per affermarsi non bisogna “salire”(di “livello) ma “tornare indietro, “farsi piccoli”, abbassarsi (grande/piccolo). La regola è imperniata su due termini: conversione (v.3) e umiliazione (farsi piccolo v.4)

E’ necessario un mutamento radicale nel modo di pensare e agire;  fuori metafora:

–          occorre avere lo spirito dei fanciulli – uno spirito “plastico”, ricettivo
–          fidarsi di Dio e non di sé stessi, dell’intelligenza, della cultura, della propria scienza
–          è necessario rinunciare al proprio ragionamento ……più la creatura si svuota di sé e più può essere “riempita” e “utilizzata” da Dio.

La base della misura degli uomini del Regno è l’umiltà: è la condizione e l’atteggiamento interiore, il segreto dei rapporti comunitari.

Possiamo dedurre che la chiesa primitiva raccogliesse persone umili, deboli, bisognose e quindi che questo tema fosse molto importante per la comunità di Matteo.


vv.5-11

Non ci sono solo i piccoli nella comunità ma sono coloro che hanno maggior bisogno di aiuto e protezione. Non è questione di età ma di maturità spirituale.

Al v. 5 si parla di accoglienza non come semplice ospitalità ma come sollecitudine. Riguarda i singoli  individui (“uno solo”), non è un discorso generico.

Gesù identifica se stesso nei piccoli (v.5) come nei missionari (10,40) e nei poveri e semplici (11,29): egli si è messo nella loro condizione e al loro “servizio” fino a morire per rivendicarne i diritti.

Attenuare la fede nei fratelli più deboli è il male più grande.

L’evangelista prevede l’inevitabilità degli scandali (..assecondando gli istinti della concupiscenza che biblicamente ha sede nel corpo ci si allontana da Dio –mano, occhio, ecc. cap.5,29-30).

Possiamo pensare che la comunità palestinese fosse più povera, tenuta in poca considerazione, disprezzata; Gesù e il Padre condannano : i “tutori” porteranno a Dio i torti e le ingiustizie che ricevono i più piccoli (angeli).


vv.12-14

I piccoli in pericolo di perdersi sono già scandalizzati.  Mt. esorta ad uscire dall’indifferenza e dal disimpegno per “soccorrere” i fratelli.

Se in Luca la parabola dell’atteggiamento di Gesù è verso i peccatori, Matteo, rivolgendosi alle guide e alla comunità, la utilizza per presentare un modello di sollecitudine verso i fratelli più in pericolo.

La pecora in Lc. 15,4 è ”perduta” e si parla di pubblicani e peccatori, qui si parla di “pecora smarrita” quindi si fa riferimento ai “minori” della comunità. Mt. si sta preoccupando di coloro che si stanno allontanando: la comunità, con precedenza assoluta, deve dedicarsi a questi fratelli in “pericolo”; “non si può lasciare in pace chi sta sbagliando”.

Lc. dice “si fa più festa in cielo”(Lc.15,7).     Mt. dice “è volontà del Padre vostro, sottolineando la comune appartenenza (sorelle e fratelli).


vv.15-18

In questi vv. notiamo che, quasi come ordine perentorio (“va”) sia il singolo che la comunità tutta si devono impegnare per “portare al ravvedimento” il fratello smarrito. Questo ordine fa intendere la difficoltà e resistenza interiore. Il conflitto deve essere affrontato.

Possiamo notare l’urgenza che sembra avere la comunità nel “risolvere” il problema: possibile che ci sia una preoccupazione pastorale della comunità affinché non sia molto lungo il turbamento prodotto da persone scomode, scandalose (probabilmente ci si sta dimenticando della parabola della zizzania che viene lasciata crescere con il grano).

Al v. 17 mentre la comunità prende le sue decisioni il discepolo è tenuto a tagliare le sue relazioni con il fratello che non si ravvede: anche qui si risente del separatismo o puritanesimo farisaico e qumranico (non si fa sicuramente riferimento alla prassi e all’esempio di Gesù).

V.18 Il “potere” che viene affidato alla comunità è lo stesso che è stato conferito a Pietro (16,19). Sciogliere e legare sono intesi come perdonare e ritenere i peccati (proviene dalle scuole rabbiniche): i maestri avevano l’autorità di permettere o proibire una dottrina o prassi.

Qui sembra avere più il significato di escludere o ammettere dall’ambito comunitario.

Il riferimento al “cielo” sembra far risalire a Dio ogni potere, ma Egli non solleva da responsabilità né il singolo né la comunità (che possono sbagliare nelle scelte).


vv. 19-20

Più che una raccomandazione alla preghiera comune questi versetti vogliono sottolineare che la concordia e l’intesa fraterna permette di superare i problemi e le difficoltà con maggiore facilità. Dio collabora ed accompagna. Anche secondo i rabbini Dio era presente quando si riunivano nello studio della Tòrah (legge, espressione della sua volontà).

La comunità si riunisce intorno alla persona di Gesù, vive la pace tra fratelli e sorelle realizzando il disegno di Dio, ed egli è presente.


vv.21-35

Parabola del servo spietato. Sappiamo che l’espressione “settanta volte sette” è un ebraismo che sta a indicare sempre, illimitatamente.

C’è una condizione: il peccatore, a sua volta, deve essere disposto a perdonare.

C’è da sottolineare il grado di autosufficienza o di orgoglio o arroganza che fa dire al debitore: ti pagherò.  Il più grande errore è quello di non riconoscere i propri errori, i propri limiti.

Il sovrano è compassionevole, la compassione vince sul rigore della giustizia ma il debitore non si ferma a riflettere sul senso del favore ricevuto. Diventa un creditore spietato quasi a sfogarsi dell’umiliazione subita :  non ha imparato l’umiltà né la misericordia.

Il re voleva far comprendere che i rapporti personali potevano essere basati su una nuova legge: se uno riceve deve saper anche dare.

Il richiamo di Mt. è un invito “minaccioso” al perdono fraterno. L’uomo che non ha perdonato rischia di vedersi ritrarre il perdono.

La parabola è l’illustrazione della Preghiera del Padre nostro che ci fa dire “ perdonaci come noi perdoniamo…” ma l’evangelista aggiunge al v. 35 “di cuore” quindi interiormente, sinceramente, illimitatamente.

Dio vuole che la sua illimitata bontà sia da noi imitata.


Alcune considerazioni emerse nel gruppo biblico

Siamo invitate/i a spostare il paradigma su ciò che si intende per “grandezza”: ciò che non ha potere è il riferimento.

I conflitti devono essere affrontati con la modalità del perdono e non del giudizio.

Il tema centrale della parabola del servo spietato non è il re che perdona ma noi che siamo perdonati e quindi a nostra volta dobbiamo perdonare.

Perdonare non significa accettare e subire, non è sottomissione. Dobbiamo riconoscere le relazioni malate ed “uscirne”, sottrarsi.

Abbiamo bisogno di sentire la concreta vicinanza di Dio, la Sua cura verso di noi. In situazioni e relazioni che ci trasmettono benessere, fiducia, accoglienza proprio nel momento in cui ne sentiamo la necessità, riconosciamo negli uomini e donne i suoi “messaggeri” (angeli).

Luciana Bonadio

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