Lunedì 7 maggio 2012 – Vangelo di Matteo cap. 17

A questo punto del vangelo, per Gesù le cose si mettono male, in seguito alle sue scelte ed al suo insegnamento. Molto probabilmente Matteo, vuole mettere in evidenza cosa ha sorretto Gesù fino alla fine. Sappiamo che il brano è una costruzione teologica e non una cronaca, quindi cercheremo di cogliere il messaggio che Matteo vuole trasmettere. La comunità tenta di descrivere lo stato glorioso di Gesù, anche per smussare le reazioni seguite alla sua morte in croce vissuta come sconfitta.


Nei primi 9 vv.
, la trasfigurazione diventa un anticipo della resurrezione ed avviene davanti ai tre discepoli che saranno anche i testimoni della sua agonia nel Getsemani (cap.26,37), il luogo è solitario per sottolineare ché è un esperienza che non si può fare nella confusione e nel chiasso.

Il primo aspetto di questo quadro è il monte, seguito dal volto di Gesù splendente come il sole e le sue vesti bianche come la luce.

Non è la prima volta che Gesù cerca un luogo appartato, nei vangeli si trovano vari riferimenti in cui Gesù, in momenti diversi e a volte da solo, si appartava in luoghi tranquilli per pregare, o anche semplicemente per riposare, vista la vita intensa di rapporti con le persone ed i vari spostamenti.

I discepoli hanno vissuto con Gesù momenti di preghiera e forte spiritualità, e da questo brano possiamo percepire l’intensità e la bellezza di questa felicità sperimentata.

La montagna, il luogo dove chi ha avuto la fortuna di salire su alte cime di montagne, conosce quell’emozione che riempie il cuore quando, in un giorno limpido e di bel tempo, lo sguardo scorre nelle valli, sui colli, tra gli alberi e oltre, sino a quando non si vedono che sfumature e si ha la sensazione di vedere diversamente quel mondo laggiù. La montagna appunto, è la metafora di uno stato di grazia, dove il godere della bellezza permette di respirare il Tutto. Così sarà stato per i tre discepoli che si trovavano con Gesù, al punto di desiderare di piantare tre tende e rimanere lì, come per voler fermare quel momento, quello stato di grazia.

Poi Matteo, presentando Gesù in dialogo con Mosè ed Elia, ci dice che è stato guidato dalla stessa fede in Dio che animò Mosè ed Elia, che rappresentano rispettivamente la legge ed i profeti, una tradizione che, secondo l’autore, Gesù è venuto a completare.

La tentazione di Pietro di non voler scendere giù, può rappresentare il contrasto tra le aspirazioni dell’uomo e il disegno di Dio, così come ci stimola a riflettere sul significato del piacere del salire verso una situazione piacevole anche se faticosa e la durezza del dover scendere, come per entrare nelle situazioni che a volte vorremmo evitare.

Ma prima ancora che finisse di parlare vengono avvolti da una nube luminosa che copre i discepoli, simbolo della presenza di Dio (vedi anche in Es. 24,16 con Mosè sul monte Sinai) da cui fa sentire la sua voce, sottolineando che d’ora in avanti, Gesù è l’unico porta parola di Dio a cui ci si deve riferire e sottomettersi. Questo richiamo vale per tutti, ma in particolare per coloro che credevano ancora in Mosè e aspettavano il ritorno di Elia (v.10).

Rappresentare Dio con la voce del Padre, è un immaginario legato alla cultura patriarcale del tempo, ma che oggi diventa presuntuoso e riduttivo affermare con certezza la vera e unica sua identità, ritengo sia necessario avvicinarsi alle scritture contestualizzando la loro storicità.

I tre sono colti da paura e cadono a terra, questo evidenzia che l’esperienza è soprannaturale, cioè qualcosa difficile da comprendere. Cadendo a terra (solo in Mt.) essi fanno, simbolicamente, un atto di sottomissione alla volontà di Dio e all’autorità del suo inviato, in questa scena Gesù svolge la parte dell’angelo consolatore.

Poi c’è la nube che avvolge i discepoli, non può essere forse un modo per dire che, non c’è più bisogno di una tenda, una volta che il messaggio è penetrato nel loro cuore?


vv. 10-13:
Qui vi è una rievocazione della missione di Elia. Matteo non perde mai di vista i suoi avversari e cerca di smantellare tutte le loro obiezioni alla proposta cristiana. La credenza della venuta di Elia, era evidentemente una leggenda popolare che poteva essere messa in discussione, ma la chiesa delle origini non ha capacità critiche e accetta l’osservazione che viene mossa dai giudei, dando però una diversa interpretazione: non si tratta di un ritorno fisico di Elia, ma dell’apparizione di un profeta che avrebbe ricalcato le orme del grande predicatore, potendo dire così che egli era già venuto. Nel v.13 riappare per l’ultima volta la figura del Battista, questo per annunciare la dura sorte che attende Gesù, anche se non simile.


vv. 14-21:
Questi versetti possono essere considerati un istruzione sulla fede, Gesù si trova davanti a una folla senza fede e ai discepoli che ne hanno poca. La scena (riportata anche da Mc.9,14-29 e da Lc.9,37-42), è reale ma anche simbolica, l’ammalato è uno dei tanti che Gesù ha incontrato, ma qui per Mt. rappresenta il popolo d’Israele, la generazione incredula, il padre del ragazzo è un uomo di grande pietà e fede, ma forse anche lui è di quelli che non credono se non vedono dei segni.

In questo contesto si riflettono le tensioni tra cristiani e giudei. Vi è la folla che assiste curiosa e diffidente, i farisei che approfittano della circostanza per gettare discredito sul maestro e sui suoi seguaci, la poca fede degli apostoli, l’insistenza del padre del ragazzo. Tutta questa situazione provoca in Gesù un desiderio di andare via da quell’ambiente: “O generazione incredula e perversa! Fino a quando starò con voi? Fino a quando dovrò sopportarvi?” v.17, ma la bontà e la disponibilità di Gesù superano questo suo disagio interiore, si fa portare il ragazzo e lo guarisce.

La citazione del demonio ripresenta la mentalità del tempo, che vedeva il peccato come causa morale dei mali fisici. Una mentalità che a volte ritroviamo ancora oggi e che serve solo ad alimentare i sensi di colpa, invece che guardare seriamente alla situazione per cercare di trovare una possibile soluzione.

Gesù alla domanda dei discepoli su come mai loro non sono stati altrettanto capaci, risponde sostenendo che è sempre la fede, cioè il rapporto sincero e sentito con Dio, che condiziona la riuscita del proprio impegno e delle proprie azioni. Ma la fede non è misurabile e a volte non basta avere fede; come i discepoli, anche noi a volte dobbiamo fare i conti con i nostri insuccessi, a volte crediamo di poter risolvere qualche situazione, ed invece poi dobbiamo accettare la nostra impotenza in quella circostanza.

Altre volte, proprio quando crediamo che una cosa sia possibile, in noi si attiva qualcosa che rende possibile il cambiamento. Occorre fare dei tentativi di concentrazione su cosa stiamo facendo per poter raggiungere l’obiettivo, per capire chi siamo, cosa vogliamo, dove stiamo andando. I modi sono tanti e diversi ed ognuno trova le sue modalità. Anche il digiuno e la preghiera possono essere delle modalità che favoriscono la concentrazione e la ricerca interiore della nostra forza e del sostegno della Sorgente dell’Amore. Affidarsi alla sua fonte e vivere con sobrietà, rende possibile il miracolo là dove si mette in atto il cambiamento, consapevoli che questo può avvenire se c’è l’ascolto, l’amore, l’accompagnamento reciproco, perché a volte siamo noi ad aver bisogno di una mano.

Avere una fede paragonata al granello di senape, rende bene l’immagine dell’infinita bontà di Dio, che dona il suo aiuto anche a chi non ha fede. Se un piccolo granello di senape può diventare un grande albero, tanto più un briciolo di fede, veramente intrecciata con la nostra vita, cioè messa in pratica, può ottenere i risultati più impensati.
vv. 22-23: Il discorso sulla passione ha preso ormai un posto rilevante nella predicazione di Gesù, (16,21; v.12 e questi due). L’espressione del v.22 fa pensare che la consegna avvenga da parte di qualcuno, ma che non si riferisce al traditore quanto al Padre al quale spetta anche muovere le pedine della passione. Ma la passione di Gesù non è stata preparata dal Padre, ma dagli uomini che hanno trovato scomoda, svantaggiosa la sua predicazione o meglio la sua provocazione. L’implicazione del Padre serve per la comunità cristiana a salvaguardare la propria immagine, il suo “onore” davanti alla sconfitta subita con la morte in croce.
vv. 24-27: Questo episodio riportato solo da Mt. non garantisce la sua autenticità, forse la sua intenzione era quella di offrire una soluzione cristiana al problema delle imposte, un problema difficile anche per i discepoli. La legge prevedeva che ogni giudeo, dall’età di 20 anni, era tenuto a versare un siclo o un didramma all’anno come imposta per il tempio di Gerusalemme, ma quando l’evangelista scrive il tempio era distrutto e i giudei in base alla prescrizione di Vespasiano, pagavano la stessa tassa per il tempio di Giove capitolino, come l’avevano versata al tempio di Gerusalemme.

L’una e l’altra ipotesi potrebbe essere valida, e la risposta di Gesù non cambia significato, ma la contrapposizione tra stranieri e figli si comprenderebbe meglio alla luce della prima ipotesi.

Infatti la risposta di Gesù sostiene che i cristiani in quanto figli di Dio, che è al di sopra di tutti i sovrani della terra, sono per diritto esenti da qualsiasi forma di subordinazione, perciò non dovrebbero pagare tributi a nessun re. Con tale richiamo si intendeva salvaguardare in linea di principio la loro indipendenza.

L’ultimo versetto sembra che Mt. abbia fatto ricorso a qualche leggenda o tradizione popolare, per esaltare la persona di Gesù e dare ulteriore risalto alla persona di Pietro. Ciò nonostante, il testo sembra dire: essendo voi pescatori, andate a pesca e con il ricavato del vostro lavoro, pagate il dovuto, ma state attenti a non sentirvi dipendenti da alcun potere.

Maria Del Vento

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