Lunedì 26 marzo 2012 – Vangelo di Matteo cap. 13,1-52

13, 1-23

Gesù, per parlare alle folle, sale sulla montagna o va in riva al lago o sta in piedi su una barca, rivolto alla gente accalcata sulla spiaggia. Come dirà poi ai discepoli: “Gridate dai tetti” quello che sentite nel chiuso. E ai discepoli parla e spiega le cose nel chiuso delle case, in un ambiente raccolto, che favorisce il dialogo e l’approfondimento.

Mi sembra di vederla, quella comunità di Antiochia, radunata in qualche casa attorno a Pietro, per sentirlo raccontare, ancora e ancora, episodi di vita e parabole di quel rabbi favoloso che è stato Gesù e che Pietro ha conosciuto bene. Non sono così anche le nostre piccole comunità, quando uomini e donne sono animati/e da un desiderio sincero di conoscere sempre meglio le testimonianze di chi ci ha preceduto sui sentieri della fede e della condivisione, della preghiera e della ricerca, delle pratiche d’amore e del rispetto reciproco?

Ecco perché ci è così prezioso questo capitolo 13: una raccolta di parabole che Gesù ha raccontato, qua e là per la Palestina, per cercare di trasmettere il suo messaggio sul “regno dei cieli”. Sette “similitudini” prese dalla vita quotidiana comune a chi lo stava ad ascoltare. Le prime quattro, in particolare, hanno una caratteristica comune: parlano del Regno come di un lento, ma sicuro, processo di crescita a partire da un seme piccolissimo o da un po’ di lievito.

Oggi ci fermiamo sulla prima, notissima: quella del “seminatore che uscì a seminare”. E’ difficile distinguere Gesù da Matteo, le parole autentiche di Gesù dalla spiegazione catechetica offerta alla comunità di Antiochia. Di Gesù è certamente la parabola; mentre i discepoli che gli si avvicinano per chiedergli spiegazioni sembrano proprio la piccola comunità che pende dalle labbra di Pietro, le cui parole Matteo registra e riporta sul suo Vangelo. Compreso il riferimento alla profezia di Isaia, molto familiare a Gesù. Così i versetti 16 e 17 mi appaiono proprio un commento entusiasta di Matteo alla sua comunità: “Beati i vostri occhi perché vedono e le vostre orecchie perché ascoltano”.

Protagonisti della parabola sono i chicchi di grano e i terreni su cui cadono; non il seminatore. La parabola ha la scopo di semplificare un discorso, sottraendolo alle concettuosità intellettuali per renderlo più facilmente comprensibile. Ma quanto sono pericolose le semplificazioni! A quanti equivoci ed errori ci possono condurre! Come quell’ “a voi è dato…” del v 11, dove “voi” non sono i preti, autoproclamatisi, ad arte, successori dei dodici, ma “tutti i discepoli e tutte le discepole” che ascoltano, riflettono, mettono in pratica…

O come quello, classico e tradizionale, di considerare categorie di persone il “colui che” di ogni versetto della spiegazione (19-23): ci sono varie specie di “cattivi” (chi ascolta la Parola senza comprenderla, chi l’accetta con gioia ma senza radicarla in profondità, chi se la fa soffocare dalle preoccupazioni e dalla seduzione delle ricchezze) e poi ci sono i “buoni”, coloro che ascoltano la Parola, la comprendono, le fanno mettere radice nel profondo del loro cuore e resistono alle seduzioni superficiali.

Troppo facile! E’ fuorviante una simile spiegazione. La realtà è chiaramente diversa e infinitamente più complessa. Non ci sono i buoni e i cattivi, come nei film di John Wayne: ognuno/a di noi è questo e quello. Ogni persona che commette peccato, ogni uomo e ogni donna che si fa sopraffare dalle sue debolezze, figlie del nostro essere creature limitate, ha sempre la possibilità di venirne fuori, di cambiare, attraverso un cammino di autocoscienza e di conversione. Mai perdere la speranza! Questo mi sembra che ci dica Gesù, esortandoci ad esercitare i nostri occhi a vedere e le nostre orecchie ad ascoltare. Non sono capacità esclusive di qualcuno e negate ad altri.

La storia dell’umanità e la vita di ogni uomo e ogni donna sono cominciate da un piccolissimo seme, da un granello insignificante… ma sono destinate a diventare alberi. Ogni vita, nessuna esclusa. Il risultato dipende dalla consapevolezza e dalla capacità di cambiamento di chi ha occhi per vedere, non solo guardare, orecchie per ascoltare, non solo sentire, e cuore per amare. Tutto dipende da questo. Dio, l’Amore, è lì che ci accompagna. La vita si sviluppa e cresce solo grazie all’amore, alla cura, al calore, alla tenerezza, alla luce, al rispetto…

Ciò che davvero conta è camminare, nel qui e ora della mia quotidianità, sui sentieri dell’amore, della luce, della vita. Da questo dipende quello che succederà “alla fine del mondo” (siamo alla fine del capitolo, ai vv 49-50). Forse Gesù portava davvero in sé quell’immaginario del giudizio finale (me lo fa sentire tanto uomo, tanto vicino alle nostre limitate fantasie e ai nostri bisogni di sicurezza…), ma quegli angeli che separeranno i malvagi dai giusti mi dicono che è urgente la conversione, il cambiamento: mentre scrivo queste parole potrei morire e potrei morire da malvagio, da violento… se non avessi impegnato la mia intelligenza e il mio cuore per cambiare e cercare la felicità nelle relazioni, invece del dominio costruito sul mio complesso di superiorità, invece della tristezza che porta con sé l’attaccamento alla ricchezza (chiedete al giovane ricco di Mt 19…).

Dove sta l’amore nel razzismo imperante oggi? Separare le persone in categorie, usare lo schema semplificatorio e violento del “noi” e “loro”… sono modalità di non-relazione, pratiche funzionali alla competizione, alla polemica, al giudizio, al dominio. Pratiche diametralmente opposte all’amore rispettoso e conviviale che nasce e porta frutto nel cuore e nella vita di chi si sa esattamente uguale, per limiti e debolezze, a ogni altra persona. A meno di credersi “angeli dell’ultimo giorno”, giudici dei malvagi e dei giusti… e farsi addirittura chiamare “santità”…

Ecco, questo volevo dire: se mi esercito ogni giorno a pensarmi come un terreno che può essere, da un momento all’altro, arido, roccioso, coperto di rovi… oppure fertile, umido e ben soleggiato… allora non potrò che pensare di essere “solo un uomo”, come ogni altro uomo, compreso chi è capace delle violenze più efferate, delle ingiustizie più odiose, della superbia più distruttiva. Come lui, anch’io posso cambiare. E, viceversa, se sono cambiato io, nelle mie modalità di stare al mondo e nelle mie pratiche di relazione, può cambiare ogni altro uomo, ogni altra donna. Questo è davvero un grande messaggio di speranza per il creato. Questo è il “regno di Dio”, un piccolo seme che cresce lentamente fino a diventare un grande albero. Questa è la vita dell’umanità, qui e ora, non nell’aldilà.

Come dice il v. 12: chi ha occhi, orecchie e cuore può convertirsi, cambiare e vivere nell’abbondanza della felicità; chi non li ha, chi è chiuso, si condanna a perdere, a poco a poco, anche quel poco che ha, fino a morire alla vita. Questa consapevolezza ci è data, ci è possibile, perché sempre un seminatore uscirà per seminare anche in noi: persone che incontriamo, letture che facciamo, esperienze che ci segnano, riflessioni che ci nascono dentro grazie agli occhi che imparano a vedere e alle orecchie che si esercitano ad ascoltare. L’amore ci accompagna sempre: nessuno è mai tanto isolato da non ricevere neppure un seme, ma è responsabilità mia avere occhi che vedono, orecchie che ascoltano e un cuore fertile che produca, se non il cento, se non il sessanta, almeno il trenta… o il quindici… o il due… Ognuno /a ha la sua possibilità.

Infine, ci vuole chi semini e bisogna saper ricevere il seme: è un dono reciproco, decisiva è la relazione. E’ conveniente superare la presunzione di essere solo seminatori e, nello stesso tempo, il rischio di non vedere chi semina nel mondo, a causa di tutto il male che ci sommerge. E la tentazione di credere che chi semina è solo Dio… e andare, così, a cercarlo in chiesa, dai preti.
La vita scorre ovunque; l’amore zampilla in ogni donna e in ogni uomo. La reciprocità è altro rispetto alla dipendenza dai preti e dalle loro dottrine. L’amore è il mio Dio.

Beppe Pavan

13, 24-43

L’evangelista Matteo, per esigenze pastorali, raccoglie in un unico capitolo delle parabole sul Regno di Dio inserendo alcune spiegazioni ed insegnamenti di Gesù. Per parlare a quelle donne ed uomini, egli prende spunti dalla natura e dalla vita quotidiana e  raggiunge ognuno di loro, proprio attraverso il concreto riferimento a quanto conoscono.

La predicazione  prosegue con tre immagini: il grano e la zizzania, il seme di senapa e il campo, il lievito e la farina. Fra le tre parabole c’è un ‘analogia nella struttura; esse iniziano con: “il regno dei cieli si può paragonare a…”. Da questo esordio gli ascoltatori di Gesù comprendevano il veicolo del messaggio, una similitudine.
 
La similitudine non è definitoria, non è prescrittiva, non rinchiude gli ascoltatori in un recinto di definizioni; essa apre orizzonti, ma lascia liberi di mettersi in cammino. Le similitudini del vangelo sono come sorgenti sotterranee: inaspettatamente, nei luoghi e nei tempi della nostra vita, possono riemergere e sgorgare portando con sé significati antichi e nuovi in grado di sollevare, almeno per un po’, la sete di senso del nostro cuore.  Fin dalle battute iniziali chi ascoltava Gesù comprendeva di non essere in presenza di un funzionario della legge…
E’ definibile il “regno dei cieli” come lo sono i regni della terra? Potremmo scrivere una “costituzione del regno dei cieli”? Sarebbe auspicabile rispettare e far rispettare le costituzioni del “regno della terra”: la costituzione italiana (per restare nel locale) o la dichiarazione universale dei diritti dell’uomo (e della donna). Il fatto è che queste costituzioni vanno scritte nel proprio animo perché si possano attuare i loro programmi; altrimenti ci saranno sempre cavilli giuridici ai quali appellarsi per eludere il vero significato di una legge.  Forse è questo il motivo per il quale Gesù parla in parabole e similitudini; e forse è proprio la battaglia contro le trappole della legge che scatenò le polemiche con l’ala legalista dei farisei (non è per questo motivo che furono perseguitati i profeti di Israele ?).
 
Oltre al medesimo genere letterario le tre similitudini hanno altre somiglianze. In tutte e tre c’è una persona che fa un’azione: un uomo che semina il grano e un altro la zizzania, un uomo che semina nel suo campo, una donna che mette del lievito nella farina; c’è l’oggetto di quell’azione: i semi del grano e della zizzania, il granello di senapa, il lievito; c’è un supporto: il campo nelle prime due, la farina nella terza.  Questi tre attori sono legati da una relazione importante: se non ci fosse stato l’uomo o la donna il seme non sarebbe stato seminato, il lievito non sarebbe stato messo nella farina; se non ci fosse stato il seme o il lievito il campo sarebbe rimasto incolto, la farina non sarebbe lievitata; se non ci fosse stato il campo o la farina, il seme sarebbe seccato, il lievito sarebbe marcito.
 
Trovo interessante il parlare in parabole perché permette a ciascuno di noi di raccogliere suggestioni e messaggi a volte semplici e a volte complessi ma comunque sempre vicini al nostro sentire, sempre rapportabili al nostro vissuto. Penso infatti che ognuno, proprio perché unico e diverso, nei vari momenti della vita, possa “interpretare” le parabole secondo una “illuminazione spirituale”, differente nel tempo, che permette di scoprire o riscoprire un messaggio per la vita spirituale, sociale e di relazione. Il regno dei cieli è la parabola della relazione e la relazione ha bisogno di soggetti che si confrontano. Un relazione autentica non prevarica, non spegne la speranza ma coltiva anche le risorse più deboli nella fiducia che cresceranno.

Il racconto della semina del “buon seme” e della zizzania per esempio mi offre delle suggestioni che si pongono a fianco della spiegazione fatta da Gesù ai suoi discepoli e certo a fianco di tante altre riflessioni.  Penso al campo seminato di buon seme e lo collego alla vita di ciascuno/a di noi. In me, in noi il Padrone della Vita ha seminato del buon seme, la potenzialità del mio “campo” è indiscussa ma la vita stessa conosce ed accoglie la zizzania.  Non penso al “nemico” che semina zizzania piuttosto riconosco che in noi convivono pulsioni positive e pulsioni negative, il buon seme di frumento che vivifica e il seme della zizzania che a nulla serve, anzi, deruba il terreno e gli impedisce di portare frutto.

Non possiamo “strappare” da noi quanto di negativo ci sentiamo dentro: sentimenti, emozioni, esperienze ma è importante riconoscerli perché non abbiano il sopravvento e non soffochino ciò che è bene e buono per la nostra vita e per il creato, il buon seme che a noi spetta coltivare. La mia vita, la mia psiche, il mio essere creatura, contengono buono e cattivo, positivo e negativo e immagino che anche dentro di me il Regno dei cieli può realizzarsi perché il Seminatore tollera la contaminazione progettando la mietitura, quindi la capacità di separare quanto ci può fare del bene da ciò che ci annienta.

I terreni permettono molte mietiture ed arriva il tempo per bruciare nel fuoco quello che ci rende egoisti, narcisi, arroganti, invidiosi: tossine psicologiche da estirpare nel tempo giusto dopo averle riconosciute e separate, dannosi veleni della nostra anima. Anche noi diventiamo terreno fertile e produttivo, seminato d’Amore e la pazienza e la lungimiranza del Seminatore sono per noi la garanzia che ci è concesso tempo ed opportunità a patto che proseguiamo impegniandoci nel processo di crescita.  Ma quanto è lenta e faticosa!

Come il seme nella terra ha bisogno del tempo scandito dalla natura, anche a noi è chiesto di rispettare i tempi della nostra creaturalità. Abbiamo però imparato da Gesù a sperare nel nostro ed altrui cambiamento e di più, abbiamo imparato a credere che il Regno dell’Amore cresce qui ed ora, nella nostra vita personale, nella storia dell’umanità e del creato.

Luciana Bonadio

13, 44-52

In questi versetti, Matteo ci riferisce di vari modi in cui Gesù parla del Regno dei cieli, cogliendo spunto dalla vita quotidiana e dalla natura, per parlare in modo semplice di ciò che gli stava a cuore. Per noi oggi, poter leggere di seguito i diversi esempi a cui Gesù paragona il Regno dei cieli, è di grande aiuto per una buona comprensione del testo. Il brano ci parla del Regno come un tesoro nascosto in un campo: chi lo trova vende tutti i suoi averi per poterlo possedere…, simile ad una perla di grande valore…, alla rete che raccoglie ogni genere di pesci.

In tutti gli esempi citati, c’è un costante riferimento alla ricerca (come per dire che il regno a cui Gesù si riferisce, non è qualcosa che è a portata di mano, ma è piuttosto qualcosa che va cercato) e nello stesso tempo, ci viene detto che è talmente importante che chi lo trova è disposto a privarsi di tutti i suoi averi, in cambio di quel tesoro.   Se pensiamo a Gesù e a tutto quello che ha caratterizzato la sua vita, alle persone che frequentava e alle relazioni che aveva con loro, potremmo dire che il Regno è inserito nella vita stessa, che è un modo di vivere con responsabilità individuale, praticando amore e solidarietà come legge fondante della nostra vita e delle nostre relazioni.

Il fatto che Gesù faccia più volte riferimento ad azioni della vita quotidiana mi spinge a pensare che alla ricerca del Regno siamo chiamati tutti, ogni donna ed ogni uomo che voglia vivere la propria vita come parte attiva del sogno di Dio. Perciò, penso che il Regno di Dio non sia qualcosa che deve ancora venire, ma che è già qui ora, ma non pienamente realizzato, e mi chiedo cosa sia necessario perché questo avvenga. Credo che, inizialmente, occorra evitare di lasciarci “prendere dalla quotidianità” e vedere con attenzione ciò che succede nel nostro e in altri Paesi, altrimenti vivremmo in un mondo completamente diverso, se non opposto a quello di cui ci parlano questi versetti.

Molti dei nostri governanti non si curano minimamente delle reali urgenze del paese. La corruzione è dilagante ed i soprusi arrivano dovunque ci siano persone o situazioni su cui speculare o guadagnare con facilità, loro che invece dovrebbero servire il Paese. Questi non sono fantasie o racconti, sono alcuni dei problemi della realtà in cui stiamo vivendo. Ma in contrapposizione a tanta crudeltà, vi sono tanti segni di speranza verso un cambiamento, segni che l’azione di Dio non conosce pause.  Vi è un popolo che cerca di collaborare alla costruzione di quel regno fatto di giustizia, condivisione e amore. Mi riferisco ai tanti giovani e meno giovani che in tante forme ed in tante piazze, hanno preso la parola dimostrando con le idee concrete di volere un mondo più giusto.  Potremmo dire: “stiamo cercando il Regno e vogliamo renderlo vivibile ora”.

Questo ci fa capire che nonostante tutto è possibile trovare il tesoro, non aspettando che succeda qualcosa, ma agendo in prima persona facendo la nostra parte: ogni donna ed ogni uomo che liberamente sceglie di basare la propria vita sull’Amore in ogni sua forma e verso ogni creatura vivente e di ogni specie, porta il proprio contributo perché si realizzi qui ed ora il Regno di cui più volte Gesù ci parla attraverso le Scritture. Contribuire all’attualizzazione di questo Regno non è un fatto che si realizza con un breve passaggio, è un processo lento che richiede una cura costante, una crescita lenta che può essere possibile se cominciamo a cambiare il nostro modo di stare al mondo.

Può sembrare poca cosa mettere in atto qualcosa che però non sembra intaccare il corrente sistema di vita, ma non è così: se siamo in grado di uscire da quell’ingranaggio che distrugge ogni forma di Amore collettivo, per il profitto personale e se saremo in tanti, avremmo corroso il modello di vita che ostacola il Regno. I germi preziosi del Regno si trovano nel cuore delle donne e degli uomini in ricerca. Gesù ci invita alla ricerca della terra abitata da donne e uomini liberi, a cercare il regno dei cieli, a diventare consapevoli di quanto è prezioso. Noi possiamo agire qui ed ora ed è a questo che siamo chiamati e chiamate a contribuire.

Maria Del Vento

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