torna all' indice


L’omosessualità nella lettera di Paolo ai Romani

Nel Nuovo Testamento uno dei pochi riferimenti all’omosessualità è nella lettera ai Romani di Paolo che sembra considerare l’omosessualità un male contro natura al quale Dio ha abbandonato gli uomini per punire la loro idolatria. Una visione che, pur essendo storico-salvifica, non sembra sufficiente per dedurre che la tendenza omosessuale sia in se stessa più grave di altre propensioni umane. Vediamo perché.

L’unico brano neotestamentario che potrebbe avvalorare l’idea di una particolare malizia dell’omosessualità in se stessa è l’argomentazione di Romani 1,26-27. Qui la questione si pone seriamente, perché Paolo, dopo aver affermato che la colpa primaria, origine di ogni altra, è il mancato onore reso al vero Dio, che la ragione umana poteva conoscere partendo dalla perfezione del mondo creato, afferma che Dio, in conseguenza di questa deviazione idolatrica, ha abbandonato i pagani a «passioni disonorevoli». Le donne pagane, dice Paolo, hanno mutato le relazioni naturali in altre innaturali e gli uomini, abbandonando il naturale rapporto con la donna, si sono accesi di passione gli uni per gli altri, commettendo cose vergognose, uomini con uomini, ricevendo così in se stessi la punizione che era conveniente al loro traviamento idolatrico.

L’idea di Paolo è geniale: egli vede nella presenza di comportamenti omosessuali, femminili e maschili, all’interno del modo di vivere pagano, una conseguenza della perversione dell’idea di Dio verificatasi nell’idolatria. Essendo stata degradata l’immagine di Dio, egli ha permesso che venisse scardinata l’immagine dell’uomo, cosicché la colpa dell’idolatria è ricaduta sull’uomo.

E molto probabile che Paolo pensi in primo luogo a quei rapporti innaturali che erano in uso in alcuni culti idolatrici della fecondità. Pur scrivendo ai Romani, egli è probabilmente influenzato dalla critica biblica contro l’antica prostituzione sacra cananea, perché l’idea di collegare idolatria e perversione sessuale gli viene quasi certamente da una diagnosi implicita nella tradizione biblica. E chiaro però che, se il culto avvalora l’omosessualità sacralizzandola, essa diventa lecita anche nella vita profana e, di conseguenza, Paolo può includere nella sua condanna anche l’omosessualità profana. Hanno quindi ragione coloro che ritengono che Paolo pensi soprattutto a questa, anche perché espressioni come «ardere di passione gli uni per gli altri» difficilmente possono alludere al fascino di rituali osceni nell’ambito del culto.

Il vero problema è sapere se questa sua diagnosi storico-salvifica è soltanto un geniale argomento retorico per sostenere una tesi più generale, che cioè ogni peccato deriva dalla falsificazione della realtà di Dio, o è in se stessa oggetto del suo autorevole insegnamento. Se anche fosse vera, come è probabile, la seconda ipotesi, bisogna fare attenzione a non ridurre a condanna morale un ragionamento che è a un altro livello. Paolo, come tutti gli Ebrei, è convinto che l’omosessualità è una cosa assurda e inspiegabile e vede in essa il segno della miseria in cui Dio ha lasciato che l’uomo precipitasse, per poter poi comprendere, da questo abisso, la necessità di credere al vangelo del gratuito perdono. Più che una colpa è per lui una punizione e una disgrazia, è peccato, nel senso, tipicamente paolino, di potenza malvagia e distruttrice dell’uomo, prodromo di morte, alienazione da Dio. Utilizzare i versetti paolini per una colpevolizzazione settoriale degli omosessuali significa distorcerne il senso, perché per Paolo, quell’anomalia disgraziata presente nel mondo pagano, è segno della miseria in cui sono caduti tutti, eterosessuali compresi.

Come, scrivendo ai Corinzi che distorcono il senso dell’eucaristia, Paolo ricorda che tra loro molti sono malati e alcuni sono morti, non per condannare solo costoro ma per rimproverare tutti, perché hanno ricevuto in maniera indegna il cibo della vita, così qui egli segnala questa innaturale situazione umana come segno della rovina di tutti. Naturalmente noi riteniamo che non sia corretto questo sfruttamento di una situazione minoritaria per farne la bandiera di un male comune, ma Paolo ragiona secondo i luoghi comuni e i pregiudizi della sua cultura ebraica, che, come abbiamo visto, hanno la loro origine nella narrazione su Sodoma. Invece di citare ciechi, storpi o lebbrosi, egli cita, come prova che l’idolatria rovina l’uomo, gli omosessuali, perché, da un lato, glielo suggerisce la connessione con la prostituzione sacra e, dall’altro, ciò gli permette di giocare sull’effetto del parallelismo tra natura di Dio deformata e natura dell’uomo parimenti deviata.

La nozione di natura umana nella lettera ai Romani

Basta questa genialità retorica a fare dell’omosessualità, in nome della Scrittura, qualcosa che, a differenza di tutte le altre condizioni umane, è già fuori posto in se stessa, prima ancora di essere asservita a progetti di male? Allo scrivente pare di no, ma ciascuno è libero di giudicare come meglio crede. Nessuna delle risposte, però, potrà pretendere di essere l’unica giusta.

Non è inutile confrontare la precipitosa sicurezza con cui talora si deduce dai versetti paolini la tesi che l’omosessualità è male perché contro natura non solo con le sottigliezze che si applicano alla sua nozione di natura quando egli parla della conoscenza della legge da pane della coscienza dei pagani, ma anche con un caso ben più serio che si trova nel capitolo 5 di Romani. Qui Paolo suppone indubitabilmente che tutti gli uomini derivano fisicamente dall’unico Adamo, eppure, per conciliare il suo insegnamento con l’ipotesi scientifica del polifiletismo (più ceppi umani tra loro indipendenti) si fa di tutto per dire e dimostrare che la sua argomentazione teologica può reggere, anche se di fatto Adamo non è storicamente quell’unico progenitore che lui credeva fosse.

 Non si vede per quale ragione si debba mantenere la sua visione sulla malizia dell’omosessualità nel caso che la scienza dimostri che non va giudicata una deviazione, ma un fatto la cui vera natura può essere definita solo dalla scienza. Le argomentazioni bibliche per dimostrare, sulla base dei racconti della creazione, che le donne devono portare il velo quando pregano nell’assemblea sono state tutte smantellate con acribia esegetica degna di miglior causa. Non si vede perché l’idea di indicare nell’omosessualità la prima delle perverse conseguenze dell’idolatria debba rimanere inattaccabile.

Alla luce di tutto questo si deve concludere che l’interpretazione del testo paolino rimane aperta e discutibile. La ricerca sulla valutazione morale dell’omosessualità deve procedere su altre strade.

Romeo Cavedo
( da CredereOggi, anno XX, n.116, Marzo-aprile 2000, pp.40-41)