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LA GRANDE PARATA

C'é voluto un autogol della chiesa cattolica per fare un po' di chiarezza e aprire uno scontro sui diritti delle persone in un sistema democratico: basta questo a sottolineare la subalternità del mondo laico al delirio di onnipotenza del tecnogiubileo

"I am what I am" canta la mitica Gloria Gaynor, e con lei gay, lesbiche e trans di tutto il mondo. Ma cosa sia questo eterogeneo e deviante popolo, di questi tempi (e pèr la verità anche da prima) è ancora oggetto di furiosi e curiosi dibattiti.

Settimane di torrido bombardamento informativo hanno ricapitolato l'argomento, offrendo di tutto e di più per un catalogo (s)ragionato delle identità, delle motivazioni e dei torti di quegli eterni sconosciuti della porta accanto (o del piano di sotto) che sarebbero gli omosessuali. La bulimia mediatica scatenata intomo al World Pride di Roma rappresenta comunque, nella sua confusione polimorfa, una punta dell'elaborazione collettiva avviata (si spera) verso un qualche percebile progresso. Che poi i risultati non siano smaglianti in assoluto dipende in larga misura dal fatto che non lo erano neppure i presupposti. Che ci volesse un autogol della chiesa cattolica per fare un po' di chiarezza e aprire uno scontro sui diritti delle persone in un sistema democratico è già un sintomo non molto positivo, che sottolinea la subalternità del mondo laico al delirio di onnipotenza del tecnogiubileo. Bisogna poi notare che il Vaticano, nell'invocare la protezione del braccio secolare a tutela dei suoi pregiudizi omofobi, ha proposto l'immagine forte ma parecchio datata di un branco dionisiaco e blasfemo in procinto di invadere piazza San Pietro.

Meglio così, forse, che perenni vittime dell'ingiustizia e della solidarietà, ma se si pensa che la principale prova a carico è stato un video-spazzatura ricavato dal montaggio di efferati spezzoni di parate gay americane e dato in pasto al pubblico con la regia dell'arcivescovo di San Francisco, viene da sorridere. Quello che si può vedere di osceno in quel filmato, infatti, è più castigato della media degli spot pubblicitari dei gelati o dei telefonini, per non parlare di quelli delle linee erotiche che una miriade di piccole tivù trasmette di notte, molto spesso incentrati su scenette saffiche senza l'ombra di un velo per una platea di maschi eterosessuali (ma quello appunto, psicologiamente, è sesso etero e quindi veniale).

La cosa strana è che lì per lì quasi nessuno abbia seppellito con una meritatissima risata il rigurgito di oscurantismo e quasi nessuno abbia avuto il riflesso di ribattere che nella realtà le cose stanno un po' diversamente.

Che i gay sono tutt'altra cosa. C'è stata una rincorsa a schierarsi sulla linea del Piave del diritto costituzionale a manifestare liberamente le proprie opinioni, ancorché disdicevoli, invece che a contrapporre un'immagine più serena degli omosessuali prendendo spunto dai fatti.

E questo è accaduto non tanto per rispetto verso gli orientamenti della chiesa, quanto perché resiste il rifiuto della cultura italiana a considerare la sessualità e i rapporti di forza che la definiscono con una categoria essenziale per interpretare la realtà.

Ovvero: chi si occupa di cose importanti come l'etica e la politica, ha in mente il sesso solo quando è fuori servizio.

I molti modi di vivere e di descrivere le omosessualità sono stati coperti da un allungarsi di ombre che viene da (troppo) lontano, e c'è voluto un po' prima che il sedicente senso comune tentasse almeno di adattarsi a uno scenario più concreto. Con qualche sforzo, però, il rispetto per le convinzioni religiose e la pigrizia mentale hanno cominciato a cedere. Da qui in avanti, ha preso il via un'esplorazione organizzata e famelica pronta a bruciare le tappe del progresso civile con corsi accelerati su chi sono e cosa fanno «veramente» gli omosessuali.

Il tranche de vie del personaggio noto e meno noto ci ha fatto scoprire (come se fosse una novità) che oltre a marciare chiappe al vento per far dispetto al papa, o travestiti da suore, hanno anche esistenze monotone fatte di coppia e faccende domestiche, di abitudini qualunque, di salute e di malattia. Pertanto meritano comprensione e rispetto.

L'ennesimo collaudo di affidabilità sociale ha raggiunto vette di audacia mai raggiunte. Merita per esempio di restare negli annali un Gianfranco Funari scatenato che in piena fascia per casalinghe manda in onda la scena di un film (Quattro matrimoni e un funerale) in cui un personaggio gay recita una bellissima e straziante poesia di Auden come orazione funebre per il suo fidanzato. (La trasmissione era cominciata con la domanda: «II gay le da fastidio?»).

Peccato che poi il prezzo da pagare per esibire un'omosessualità dal volto umano sia il rafforzamento a suon di sondaggi di opinione dell'idea che sfilare «a quel modo» nella Roma del giubileo sia un'intollerabile provocazione. Perciò, bene hanno fatto il presidente del consiglio e il sindaco di Roma a mostrarsi sensibili e a negare i rispettivi patrocini al Worid Pride.

Pensare che la «Millennium march» di Washington organizzata lo scorso aprile dal movimento gay e lesbico americano ha avuto sponsor come la Coca Cola e che Bill Clinton fa le veci di Giovanni Paolo II nel benedire gli omosessuali. Del resto, di là dall'oceano non sono più all'abc come qui da noi. La normalità gay è una pratica diffusa anziché una piccante novità e l'integrazione galoppa.

L'etica affermativa elabora modelli patinati in cui ci si sposa con rito religioso in attesa di poter accedere a quello civile (nel Vermont sarà possibile tra meno di un mese), si allevano bambini plurimamma e/o pluribabbo, si fa più sport che sesso è si va all'arrembaggio della spiritualità gay friendly. Ci si commuove per Tom che ha salvato la vita del suo ragazzo Bob donandogli un rene o si colleziona l'ennesimo record nazionale festeggiando la prima lesbica afroamericana dichiarata (Rum Ellis) felicemente arrivata ai cento anni. Siamo insomma al «gay brava gente» e pilastri della comunità in barba a qualunque fondamentalismo apocalittico.

C'è naturalmente anche qualcosa di inquietante in queste conquiste della visibilità che rischiano di far apparire la liberazione gay, nella sua maturità, come una caduta libera verso l'omologazione. Ma d'altro canto, finché mancherà il pieno e totale diritto a non essere niente di speciale ci sarà qualcosa che non funziona e fino ad allora qualunque modo di essere omosessuali risulterà, oggettivamente, trasgressivo. Dopodiché ci sarà sempre spazio per le soggettività innovatrici.

In Italia, dove la famiglia omosessuale felice e prolifica è quasi pura fantascienza e dove il futuro si prospetta più che altro come una ripetizione tecnologica del passato, avremo tutto il tempo per prevenire (o abituarci a) eventuali pericoli che l'accettazione risulti un puro baratto tra libertà e normalità. Intanto possiamo goderci la trasgressione facendo il tifo per la manifestazione dell'8 luglio, magari con la speranza che liberarsi un po' (senza obbligo di piume di struzzo) sia una buona possibilità per tutti.

Qualcosa di americano oltre alle ricette economiche, comunque, ce l'abbiamo anche noi. Abbiamo verificato in questi giorni che il segretario dei Ds Walter Veltroni risponde anche alle e-mail che gli mandano i gay e le lesbiche chiamandoli per nome («Caro Mario..» o «cara Gabriella»). Proprio come farebbe Bill.

Gianni Rossi Barilli