18^ Domenica del T.O.

Discendere dal monte in cerca di Dio

Sei giorni dopo, Gesù prese con sé Pietro, Giacomo e Giovanni suo fratello e li condusse in disparte, su un alto monte. E fu trasfigurato davanti a loro; il suo volto brillò come il sole e le sue vesti divennero candide come la luce. Ed ecco apparvero loro Mosè ed Elia, che conversavano con lui. Pietro prese allora la parola e disse a Gesù: «Signore, è bello per noi restare qui; se vuoi, farò qui tre tende, una per te, una per Mosè e una per Elia». Egli stava ancora parlando quando una nuvola luminosa li avvolse con la sua ombra. Ed ecco una voce che diceva: «Questi è il Figlio mio prediletto, nel quale mi sono compiaciuto. Ascoltatelo». All’udire ciò, i discepoli caddero con la faccia a terra e furono presi da grande timore. Ma Gesù si avvicinò e, toccatili, disse: «Alzatevi e non temete». Sollevando gli occhi non videro più nessuno, se non Gesù solo. E mentre discendevano dal monte, Gesù ordinò loro: «Non parlate a nessuno di questa visione, finché il Figlio dell’uomo non sia risorto dai morti» (Matteo 17, 1-9).

Questa pagina del Vangelo ci pone di fronte ad un quadro letterario e teologico davvero suggestivo e ricco di significato. Ancora una volta può essere utile ricordare che non ci troviamo in presenza di una cronaca, ma di una costruzione teologica, cioè una pagina con cui l’evangelista vuole trasmetterci un messaggio. Il brano è collocato nel Vangelo quando ormai per Gesù, viste le sue scelte e il suo insegnamento, le cose si mettono male. Matteo si domanda come Gesù abbia fatto a restare fedele a Dio: che cosa lo ha sorretto fino alla fine?

Matteo, come Marco, riferisce che sul monte Gesù “si trasformò”, subì una metamorfosi, cambiò  di aspetto, ma è solo Matteo che individua come oggetto di tale trasformazione il volto di Gesù, che diventa radioso come il sole. Marco, invece, concentra la propria attenzione soprattutto sulle vesti. Evidente il parallelo con Mosè, che, quando discese dalla santa montagna, “non si era accorto che la pelle del suo volto era raggiante, per il fatto di aver conversato con Dio” (Es 34,29).

In realtà questo è solo un aspetto di quello che Matteo chiama “visione”. Esso è integrato dall’apparizione dei due personaggi biblici, Mosè e Elia, che si intrattengono a conversare con Gesù e che Matteo nomina nell’ordine inverso rispetto a Marco: “Mosè ed Elia”. Con questa opzione “rabbinica”, Matteo stabilisce una priorità di Mosè su Elia, e al tempo stesso favorisce la presa di coscienza di un dialogo che Gesù intrattiene, mediante le due figure più rappresentative, con tutta la legge e i profeti.La parte centrale del racconto è rappresentata dalle parole di Pietro a Gesù, a cui fa seguito un nuovo elemento visivo – la nube luminosa – e la voce che viene dalla nube: «Questi è il mio Figlio prediletto, nel quale mi sono compiaciuto. Ascoltatelo». A questa rivelazione i discepoli cadono tramortiti presi dalla paura; la scena si conclude con un terzo quadro che corrisponde a quello di apertura: Gesù rianima e incoraggia con il gesto e la parola i discepoli che risvegliandosi vedono Gesù solo.

L’evangelista Matteo, sulla base di una tradizione, di cui sono testimoni i racconti paralleli di Marco e Luca, ha composto una pagina di alto contenuto cristologico. Lo schema e le immagini di questo quadro sono in parte mutuati dalla tradizione biblica delle teofanie e delle visioni apocalittiche: il monte, lo splendore luminoso del volto, delle vesti, la nube e la voce divina, nonché la reazione di paura e il silenzio.

Sul monte, davanti a Gesù trasfigurato e associato ai due personaggi prestigiosi dell’AT, Mosè ed Elia, Pietro propone di costruire tre tende, una per ognuno. Nonostante i segni della trasfigurazione celeste, lo splendore e la luce, Pietro tende a assimilare il ruolo di Gesù a quello dei due rappresentanti e mediatori dell’antica alleanza: Mosè, la legge, ed Elia, i profeti. Riemerge in Pietro la tentazione di un messianismo trionfante. il tentativo di impedire la discesa (quando su un monte si sale e poi si scende).

Non ha il tempo di finir di parlare, quand’ecco appare una “nube luminosa”. Di nuovo Matteo tradisce l’influsso dell’esodo: la nube della gloria del Signore “appariva come fuoco divorante agli occhi dei figli d’Israele, sulla cima della montagna” (Es 24,17).  La nube richiama il simbolo della presenza di Dio nella tenda del convegno e nel tempio. Questa stessa nube “coprì” la tenda del convegno, o dell’appuntamento: adesso essa  copre i discepoli. Non è forse un modo per dire che non c’è più bisogno di una tenda, una volta che la rivelazione della Parola di Dio è stata racchiusa nel cuore dei discepoli?

Presentandolo in dialogo con Mosè ed Elia, Matteo ci dice che Gesù è stato guidato dalla stessa fede in Dio che animò la vita di Mosè ed Elia. E’ Dio che ha reso “il suo volto risplendente come il sole e le sue vesti bianche come la luce”: Dio lo rende come un riflesso della Sua luce, del Suo amore.  In questo mite profeta i discepoli hanno visto, anche dopo la “sconfitta” della croce, il vero testimone di Dio, un raggio della sua luce.

Questo testo contiene inoltre un particolare interessante, un doppio movimento: si sale verso l’alto monte e poi si scende.

Salire per Gesù non è, come vorrebbe Pietro, andare alla ricerca di uno spazio comodo al riparo dai problemi, una fuga dall’impegno nel mondo. Per Gesù (come per molti altri personaggi della Bibbia) salire significa cercare il volto di Dio, il dialogo con Lui, concentrarsi sull’essenziale, sottrarsi alla cattura delle immediatezze, rivedere l’intreccio tra preghiera e azione, lasciarsi inondare e riscaldare il cuore. Dio cerca noi, ma noi siamo sollecitati/e a cercare il Suo volto, la Sua parola, la Sua presenza, la Sua volontà. Oggi ritagliarsi momenti per “salire sul monte in disparte” è tanto difficile quanto necessario. Soprattutto è controcorrente. Anche in questo “cercare Dio” Gesù è per noi  maestro.

Questo cercare Dio crea un atteggiamento che ci mette in guardia dalla terribile tentazione di avere Dio in tasca, di conoscere nei dettagli la Sua volontà, di farGli la fotografia con i nostri dogmi. Questa è una presunzione tipica di noi credenti, sempre esposti alla “tentazione” di ridurre Dio alle immagini che di Lui ci facciamo. Cercare Dio significa, nell’indicazione del profeta Amos, non portare i nostri passi e i nostri cuori dove ci sono gli idoli dell’egoismo, delle “guerre di occupazione”, del perbenismo, della superstizione, del denaro, dell’immagine, della viltà..

Guai a chi oscura questa luce, chi colora di paura il nostro rapporto con Dio, chi dissemina sensi di colpa, chi presenta il volto di un Dio giudice impietoso e moralista. Se ci lasciamo persuadere e paralizzare da questi giudizi “maledicenti” e pensiamo che il Cielo si è chiuso sopra le nostre vite, allora possiamo cadere nell’angoscia e distruggere la nostra stessa felicità. …sopra di noi si possono scatenare le più “furiose” tempeste, ma Dio non cessa di sorriderci, di guardarci con amore, di starci vicino. Anche se il nostro cuore ci condanna, Dio è più grande del nostro cuore. “(1 Giovanni 3,20).

Il secondo movimento che il testo registra è questa “discesa dal monte” di Gesù e dei tre discepoli. Gesù scende verso la città, verso la vita quotidiana, verso l’ora difficile che si avvicina ma con la luce del monte, con la gioia del Tabor, con il caldo soffio di Dio, con la Sua pace nel cuore: si riesce ad amare la vita quotidiana solo se portiamo in noi l’incontro con Dio, il dialogo con Lui.

Perché allora preferire la storia, ancora vincolata a contraddizioni spesso sgradevoli, e non tentare invece di afferrare in qualche modo un “oltre” sicuramente più allettante? La tentazione di fuggire da un mondo scomodo e impegnativo per rimanere con Gesù, Mosè ed Elia sul monte è forte per i discepoli: le parole di Pietro: “Signore, è bello per noi restare qui; se vuoi farò qui tre tende…” (Mt 17,4), sono emblematiche al riguardo ed evidenziano un rischio con il quale ognuno/a di noi deve prima o poi misurarsi. È il rischio di vivere una fede disincarnata inseguendo la trascendenza fuori dalla storia.

Non esiste una vera “spiritualità cristiana” fuori dall’impegno politico, culturale, sociale. Amare il quotidiano nella società e nella chiesa può comportare l’impegno di andare contro corrente. Anche il fatto che la  nostra piccola comunità di base sia luogo di passaggio continuo di persone di ogni genere, ci aiuta a “vivere dentro la città” con i suoi problemi, con le persone, con le relazioni fatte di lacrime e di gioia.

La spiritualità si nutre della compagnia delle creature che fanno fatica a vivere, mentre lo spiritualismo crea i benefattori e i credenti disincarnati. E’ un modo per difendersi dalla compagnia disturbante della città e, semmai, occuparci con un po’ di enfasi dei “poveri lontani”… che sono tanto simpatici perché non bussano mai all’uscio di casa nostra e non si siedono alla nostra tavola.

Il richiamo di Dio all’ascolto ci riporta invece in quella storia del creato, dell’umanità che, grazie al rivelarsi della Parola-progetto divino, è diventata storia di salvezza. In questa storia, che è quella del mondo, “ascoltare” è segno di una scelta di fede che impegna in modo concreto. “Ascolta Israele… amerai il Signore tuo Dio con tutto il tuo cuore, con tutta la tua persona e con tutte le tue forze….”(Deuteronomio), e “amerai il prossimo tuo come te stesso” (Levitico). Questo è il duplice precetto dell’amore, verso Dio e verso l’umanità, che riassume tutta la Torah e che Gesù ha fatto proprio.

“Ascoltare” sta dunque nella logica di un impegno per una storia rinnovata, perché la salvezza di Dio possa mostrarsi ed essere alla portata di tutti/e. Come i discepoli, atterriti dal timore di fronte al mistero, sono “toccati” da Gesù e invitati ad “alzarsi e non temere”, tanto che con lui “discendono dal monte” verso la realtà che li attende, così anche noi, “toccati” dalla parola-evento, siamo chiamati a “discendere” verso quella mondanità che talvolta preferiremmo sfuggire, assumendo con coraggio quelle contraddizioni storiche che ci lacerano, operando scelte coraggiose che denunciano un potere a favore di pochi e non del bene comune.

È questa la salvezza possibile di cui dobbiamo essere segno, la parola che libera di cui dobbiamo essere i portatori. Qualsiasi annuncio che sposta l’attenzione evitando di “giocarsi” con coraggio nello spazio e nel tempo, che si chiude nei “miti” della cura esclusiva di sé è in contraddizione con la logica della rivelazione presentata nelle Scritture; infatti, come ricorda il Deuteronomio: “Questi precetti/insegnamenti che oggi ti comando non sono una cosa straordinaria oltre le tue forze né sono cosa lontana da te; non è nel cielo… e neppure al di là del mare… é invece molto vicino; è nella tua bocca; é nel tuo cuore perché tu possa fare…”, cioè tu possa lasciare entrare la salvezza di Dio nel mondo attorno a te.

Paolo Sales

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