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Lunedì 11 giugno 2012 – Vangelo di Matteo cap. 21,28 – 22,14 – CdB – Comunità Cristiana di Base Viottoli

Lunedì 11 giugno 2012 – Vangelo di Matteo cap. 21,28 – 22,14

In questa parte che abbiamo letto del vangelo di Matteo sono descritte tre parabole che sono chiamate dal commentatore “parabole sul rifiuto del regno”. Sta, dunque, per consumarsi una rottura con il giudaismo del tempo, rottura non definitiva.

Gesù, arrivando a Gerusalemme, sa quello che avverrà e quindi con queste tre parabole vuole scuotere quelle persone che si sentono dalla parte dei giusti o che hanno poca fede.

L’affermazione del v.31 “gli esattori e le prostitute vi precedono nel regno di Dio” è una affermazione forte che vuole richiamare alla riflessione, come pure quella del v. 42 “la pietra che i costruttori hanno rigettato è diventata testata d’angolo”.

Siamo, dunque, in presenza di una costruzione teologica e letteraria tipica di Matteo, che sottolinea il costante rifiuto dell’offerta di salvezza da parte dei capi di Israele. Come Gesù anche gli altri inviati come Giovanni Battista e i profeti del Primo Testamento patiscono lo stesso destino: il rifiuto, la non accettazione dell’invito.

vv. 28-32

La prima parabola ruota sulla figura dei due figli ed in particolare sulla risposta data al padre che chiede loro di andare a lavorare nella vigna.

Prima viene il figlio che dice di no (questo non nell’ordine descritto) e poi si pente, dopo viene il figlio che dice di sì ma poi non va nella vigna, sicché il figlio obbediente è il primo, non l’ultimo. Nel commentare il significato di questi due figli, Alberto Mello identifica in essi gli Israeliti ed i pagani.

Per prima cosa bisogna dire che è un racconto esemplare che si riferisce a quelli che hanno creduto e a quelli che non hanno creduto alla predicazione del Battista. La non corrispondenza tra il dire ed il fare è comune ad entrambi i figli ma, mentre il dire rimane sempre ambiguo, il fare è decisivo.

Alla domanda di Gesù “chi dei due ha fato la volontà del padre?” nel racconto di Matteo gli interlocutori sanno rispondere esattamente: non chi ha detto sì, ma chi ha lavorato nella vigna. Nella parabola non si vuole solo mettere in rilievo il fare ma anche il pentimento, che vuole indicare il percorso del peccatore che imbocca la strada sbagliata ma poi ci ripensa, si converte e cambia direzione.

La salvezza non è data solo a chi ha l’atteggiamento di obbedienza ma anche a chi ha il coraggio di contraddirsi, di ricredersi e alla fine arrivare al pentimento. La conseguenza che si trae dalla parabola è provocatoria: un rovesciamento inatteso dei destinatari del regno.

Il v. 31, come già accennato, riporta l’affermazione di Gesù che vuol dire: gli esattori e le prostitute prenderanno il vostro posto. Questi erano pubblici peccatori, erano anche generalmente, i peggiori collaborazionisti col potere eppure sono arrivati a pentimento. Hanno fatto di più per il regno di Dio dei cosiddetti “giusti”, hanno fatto di più di quelli che hanno creduto solo a parole.

Qui il commentatore dice che la partita del regno si gioca già tutta sull’accoglienza ed adesione alla predicazione penitenziale del Battista. La mancanza di fede è già di per sé stessa una mancanza di “giustizia”, di obbedienza operativa e quindi di buone opere.

vv. 33-45

Più che una parabola, il racconto dei vignaioli omicidi è un’allegoria. L’attenzione dell’evangelista si concentra soprattutto su due aspetti:

a)      i contadini non sono soltanto cattivi ma incapaci di far fruttare la vigna
b)     
la scelta operata dagli altri vignaioli.

La vigna del Signore è la casa di Israele, gli abitanti di Giuda la sua piantagione preferita. Il signore della vigna cambierà i vignaioli ma non la vigna. In Matteo il padrone invia in due riprese più servi ed il trattamento a loro riservato è sempre uguale: uno lo percossero, uno lo uccisero, uno lo lapidarono; la sorte dei servi è sempre la stessa.

I servi di cui si parla sono i profeti che hanno preceduto il Figlio. I contadini non lavorano né per amore del padrone né per amore della vigna, vogliono solo accaparrarsi quest’ultima a spese del proprietario.

Dopo la sorte toccata ai servi, il padrone si decide a rischiare il tutto per tutto e ad inviare il proprio figlio. Egli non è solo un inviato, è l’erede a cui la vigna spetta in eredità. C’è una connessione molto stretta tra l’eredità e l’erede e tra la vigna ed il Figlio.

Per arrivare alla sentenza contro i vignaioli, Matteo fa pronunciare la domanda a Gesù rivolta ai sommi sacerdoti: “che farà il padrone a quei vignaioli?”. Sono dunque gli stessi sacerdoti che condannano se stessi, si identificano come colpevoli, si riconoscono come vignaioli che il padrone “farà perire miseramente quegli indegni”. Infatti Matteo, alla fine, specifica che i sommi sacerdoti capirono che parlava di loro. Sulla pietra rigettata del Salmo 118,22 è giocata tutta la parabola ed alcune chiavi di lettura compresa quella sopra citata.

Altra chiave è che nel racconto non viene specificato se i vignaioli si siano solo rifiutati di consegnare i frutti o se addirittura non abbiano fatto produrre frutti alla vigna.

Quando viene detto del trasferimento della vigna ad “altri contadini” si chiarisce che anche questo è un problema; i nuovi contadini infatti faranno fruttificare la vigna (v.43). Essi gli consegneranno i frutti a loro tempo quindi il compito dei profeti e del Messia non è solo quello di riscuotere i frutti ma sono inviati perchè producano frutti degni della conversione. I contadini non rifiutano i profeti perché non producono frutti ma non producono frutti perché rifiutano i profeti ed il Messia.

Una terza ed ultima chiave di lettura riguarda il trasferimento della vigna ad altri contadini. La vigna come abbiamo visto è chiaramente “il regno di Dio” che “sarà dato a un popolo” che aderirà all’annuncio dei profeti e di Gesù.

22, 1-14

Anche la terza parabola inizia con l’invio dei servi; anche qui un doppio invio, una doppia missione che come nella parabola precedente si conclude in modo tragico. L’ipotesi che il commentatore dà come più probabile al v.7 è che la distruzione di Gerusalemme del 70 d.C. sia vista come un castigo al rifiuto opposto da Israele ai missionari cristiani.

Al v.8  si parla degli invitati che non sono degni:  è  il rifiuto del discepolo verso il suo “Signore”. La dignità è una categoria fondamentale nel discorso missionario. Il rifiuto di Israele è inspiegabile ed è sconcertante quel “non vollero venire” che, dall’altra parte apre la via alla missione presso i pagani, ossia l’invito rivolto a tutti senza più distinzioni, né discriminazioni (non soltanto agli invitati ufficiali).

Cattivi e buoni: questa precisazione del v. 10 non è accidentale; sono stati infatti chiamati gli indegni, quelli che non erano in alcun modo preparati al banchetto. La mescolanza di buoni e cattivi all’interno del banchetto (della chiesa) è il riflesso della gratuità dell’invito.

L’unico vincolo richiesto è quello del vestito, un vestito che può essere visto come un vestito di fede e di opere, un segno di penitenza e di buone opere nell’ambito del giudizio a cui saranno sottoposti coloro che vorranno far parte del regno. Anche i membri della chiesa saranno quindi giudicati, come Israele, sulle opere degne del regno di Dio. La chiamata non garantisce l’elezione; Dio non ha chiamato soltanto gli eletti.

Tutti sono chiamati alla salvezza cooperando con la grazia di Dio, il quale desidera che ogni uomo e donna sia salvato/a.

Luciano Fantino

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